lunedì 28 gennaio 2008

Le favole di Oscar Wilde

Alla Signorina Margot Tennant,
Signora Asquith

C’erano una volta due poveri Spaccalegna che se ne ritornavano a casa attraverso una grande foresta di pini. Era d’inverno, e una notte di freddo intenso. La neve aveva distesa al suolo la sua fitta coltre, e anche i rami degli alberi ne erano carichi; il gelo faceva cricchiare i rametti al loro passaggio, e quando giunsero alla Cascatella di Montagna la videro sospesa immobile nell'aria, poiché il Re-Ghiaccio l’aveva baciata.
Faceva talmente freddo che nemmeno gli animali e gli uccelli sapevano come raccapezzarsi.
«Uff!» bofonchiava il Lupo mentre veniva avanti zoppicando con la coda tra le gambe attraverso lo sterpeto. «Che tempo infame! Perché il Governo non ci pone rimedio? »
«Uiit! Uiit! Uiit!» cinguettavano i Fanelli verdi. «La vecchia Terra è morta, e l'hanno adagiata nel suo sudario bianco!»
«La Terra si sposa, e questa è la sua veste nuziale» tubavano le Tortore tra di loro. Le loro zampine color di rosa erano tutte morse dal gelo, ma sentivano che era loro dovere considerare la situazione sotto un aspetto romantico.
«Stupidaggini!» brontolò il Lupo. «Vi dico che è tutta colpa del Governo, e se non volete credermi vi mangio!» II Lupo possedeva una mentalità esclusivamente pratica, e non era mai a corto di argomenti.
«Be’, per parte mia,» disse il Picchio, che era filosofo nato «io non ho bisogno che mi si spieghino le cose con dottrine atomistiche: se un fatto e così, e così, e per il momento fa un freddo cane.»
E certamente il freddo era pauroso. Gli Scoiattolini, che abitavano nel cavo dell'alto abete, seguitavano a soffregarsi il naso a vicenda per scaldarsi, e i Conigli si arricciolavano nelle loro buche, e non si azzardavano nemmeno a guardar fuori. Le sole persone che sembravano soddisfattissime erano i grossi Gufi occhialuti. Avevano le penne addirittura rigide a forza di brina, ma non se ne curavano, e facevano roteare i loro grandi occhi gialli, e si chiamavano tra loro per la foresta, «Tu-uiit! Tu-uuu! Tu-uiit! Tu-uuu! Che clima meraviglioso abbiamo!» dicevano.
Intanto i due Spaccalegna proseguivano per la loro strada, alitando energicamente sulle dita il loro fiato caldo, e pestando i grossi scarponi chiodati sulla neve compatta. Una volta sprofondarono in un alto cumulo di neve e ne vennero fuori infarinati come mugnai quando le macine stridono, e una volta scivolarono sul ghiaccio liscio e duro dove l'acqua della marcita era gelata, e le fascine caddero dai loro involti, ed essi dovettero raccoglierle e tornarle a legare insieme di nuovo; e una volta temettero di avere smarrita la strada, e un terribile spavento li colse, poiché sapevano quanto crudele è la Neve per coloro che si addormentano tra le sue braccia. Ma riposero la loro fiducia nel buon San Martino, che ha cura dei viaggiatori, e ritornarono sui loro passi, e camminarono cautamente; infine giunsero al limitare della foresta e videro, lontane lontane nella valle sotto di loro, le luci del villaggio in cui abitavano.
Si rallegrarono talmente al pensiero di essere salvi che risero forte, e la Terra sembrò loro un fiore d'argento, e la Luna un fiore d'oro.
Tuttavia, dopo che ebbero riso si rattristarono, poiché si rammentarono della loro povertà, e l'uno disse all'altro:
«Perché ci siamo rallegrati, dal momento che la vita e fatta per i ricchi, non per gente come noi? Meglio sarebbe stato che fossimo morti di freddo nella foresta, oppure che qualche bestia selvatica ci avesse assaliti e uccisi!».
«Certo» gli rispose il suo compagno «molto è dato ad alcuni, e poco agli altri. L'ingiustizia ha spezzettato il mondo, né esistono parti uguali di nessuna cosa all'infuori del dolore.»
Ma mentre si lamentavano scambievolmente della loro miseria accadde questa cosa strana. Dal cielo cadde una stella, luminosa e bellissima. Scivolò giù dal firmamento, superando le altre stelle nella sua corsa, e mentre gli Spaccalegna la fissavano stupiti, parve ad essi che precipitasse dietro un ciuffo di salici che crescevano dietro un piccolo ovile, a non più di un tiro di sasso di distanza.
«Perbacco! Dopotutto esiste un tesoro per chiunque lo sappia scovare!» esclamarono, e si misero a correre, tanto erano avidi di ricchezza.
E uno dei due corse più forte dell'altro, e lo superò, e penetrò tra i salici e uscì dalla parte opposta, ed ecco! c’era davvero un oggetto d’oro adagiato sulla neve bianca. Perciò egli vi si avvicinò ansioso, si chinò e vi posò sopra le mani, ed era un manto di tessuto d’oro, stranamente trapunto di stelle, e avvolto in molte pieghe. E ad alta voce lo Spaccalegna gridò al compagno di aver trovato il tesoro che era caduto dal cielo, e quando il compagno lo ebbe raggiunto, sedettero insieme nella neve e allentarono le pieghe del mantello onde dividersi il tesoro. Ma, ahimè, esso non conteneva né monete d’oro, né monete d’argento, e in realtà non si trattava affatto di un tesoro, ma soltanto era una piccola creatura addormentata.
E uno dei due disse all’altro: «Amara è questa conclusione delle nostre speranze, e davvero non abbiamo fortuna. Infatti, che profitto porta un bambino a un uomo? Lasciamolo lì e andiamocene per la nostra strada, giacché siamo due poveretti, e abbiamo gia figli nostri e non possiamo sottrargli il pane per darne a un altro».
Ma il suo compagno gli rispose: «No, sarebbe malvagio lasciare questa creatura a perire così nella neve, e malgrado io sia povero quanto te e abbia molte bocche da nutrire, e ben poco in pentola, pure me la porterò a casa con me, e mia moglie ne avrà cura».
Perciò raccolse teneramente il bambino, lo avvolse nel mantello per proteggerlo dal freddo pungente, e si avvio giù per la collina verso il villaggio, mentre il primo Spaccalegna molto si stupiva della avventataggine e della sciocca pietà del compagno.
E quando giunsero al villaggio gli disse: «Tu hai il bambino, perciò dammi il mantello, poiché è giusto che facciamo a mezzo ».
Ma l’altro gli disse: «Niente affatto, poiché il mantello non è ne mio ne tuo, ma del bambino soltanto». E gli augurò la buona notte e si diresse a casa sua e bussò all’uscio.
E quando sua moglie venne ad aprire e vide che il marito le era ritornato sano e salvo, gli buttò le braccia al collo e lo bacio, e gli tolse dalle spalle l’involto di fascine, e gli spazzò via la neve dalle scarpe, e lo pregò di entrare.
Ma egli le disse: «Ho trovato qualcosa nella foresta, e te l'ho portata affinché tu ne abbia cura». E non si mosse dalla soglia.
«Che cos’è?» esclamò la donna. «Mostramela, poiché la casa è spoglia, e abbisognamo di tante tante cose.» Allora lo Spaccalegna rimosse il mantello, e le mostro la creaturina addormentata.
«Ohimé, padre,» mormorò la donna «non abbiamo gia abbastanza figlioli nostri, che tu debba ora portare un trovatello a sedere accanto al focolare? E chi può dire che esso non ci porti sfortuna? E come lo cureremo?» E la donna avvampò di collera contro il capo di casa.
«Ma è un Figlio delle Stelle» disse lo Spaccalegna, e le narrò la strana origine della sua scoperta.
Ma sua moglie non volle udir ragione, e lo schernì, e gli parlò con ira, e gridò: «I nostri bambini non hanno pane a sufficienza, e noi dovremmo nutrire un figliuolo d’altri? Chi provvederà a noi? E chi ci darà cibo?».
«Se Dio ha cura persino dei passeri, e li pasce!» replicò lo Spaccalegna.
«Forse che anche i passeri non muoiono di fame, l’inverno?» ribatté la donna. «E adesso non è inverno, forse?» E 1’uomo non rispose nulla, ma non si mosse dalla soglia.
E una folata di vento gelido irruppe dalla foresta attraverso 1’uscio aperto e la donna rabbrividì e tremò e chiese all’uomo: «Perché non chiudi 1’uscio? Entra un vento pungente, in casa, e io ho freddo».
«In una casa dove un cuore è arido non entra forse sempre un vento amaro? » disse l’uomo. E la donna non rispo¬se nulla, ma si ritrasse più presso al fuoco.
E dopo qualche attimo si volse e lo guardò, e i suoi occhi erano pieni di lagrime. E l’uomo entrò in fretta, e le posò il bambino tra le braccia, ed ella lo baciò, e lo mise nella culla dove il più piccolo dei loro figli dormiva già. E il mattino seguente lo Spaccalegna prese lo strano manto d’oro e lo ripose in un cassone, e sua moglie tolse una collana d’ambra che circondava il collo del bambino e ripose nel cassone anche quella.

Così il Figlio delle Stelle fu allevato con i figlioli dello Spaccalegna, e sedette alla stessa tavola con loro, e divenne il loro compagno di giochi. E ogni anno diventava più bello a vedersi, cosicché tutti coloro che abitavano nel villaggio ne erano pieni di meraviglia, poiché mentre essi erano scuri di pelle e neri di capelli, egli era bianco e delicato come avorio polito, e i suoi riccioli assomigliavano alle anella del narciso selvatico. Pure le sue labbra ricordavano i petali di un rosso fiore, e i suoi occhi erano come le violette che allignano presso i ruscelli d’acque chiare e il suo corpo era simile all’asfodelo, in un prato dove non giunga la falce del mietitore.
E tuttavia la sua bellezza non gli portò bene, poiché egli crebbe orgoglioso, e crudele, ed egoista. Disprezzava i bambini dello Spaccalegna, e gli altri bambini del villaggio e diceva che erano di natali meschini, mentre egli era nobile, poiché era stato generato da una Stella, e prese a tiranneggiarli, e a chiamarli suoi servi. Né provava pietà per i poveri, né per coloro che erano ciechi o infermi o tormentati comunque da qualche afflizione, ma soleva pigliarli a sassate e ricacciarli sulla strada maestra, ordinandogli di andare a mendicare altrove, cosicché nessuno ad eccezione dei fuorilegge si arrischiava a venire due volte al villaggio a chiedere l’elemosina. Era davvero come uno innamorato della bellezza e soleva schernire i deboli e i diseredati dalla sorte, e prendersi beffe di loro; e amava soltanto se stesso, e d’estate, quando i venti tacevano, si coricava presso il pozzo nel giardino del prete e abbassava il capo verso l’acqua, stupendo del proprio viso, e rideva di piacere nella contemplazione della propria bellezza.
Lo Spaccalegna e sua moglie spesso lo rimproveravano e gli dicevano: «Noi non ci siamo comportati con te come tu ti comporti con quelli che sono abbandonati, e non hanno nessuno che li soccorra. Perché dunque sei crudele verso coloro che hanno bisogno di pietà? ».
Spesso il vecchio prete lo mandava a chiamare, e cercava d’insegnargli l’amore per le cose viventi, e gli diceva: «La mosca è tua sorella; non farle male. Gli uccelli selvatici che vagano per la foresta possiedono la libertà. Non irretirli per il tuo divertimento. Iddio ha creato la cecilia e la talpa, e ciascun animale ha la propria dimora. Chi sei tu da arrecare dolore nel mondo di Dio? Persino il bestiame nei campi canta le Sue lodi».
Ma il Figlio delle Stelle non si curava dei loro ammonimenti, e aggrottava la fronte e li dileggiava, e ritornava dai suoi compagni e li bistrattava. E i suoi compagni lo seguivano, poiché era bello, di piede agile, e sapeva danzare, e modulare la zampogna, e far musica. E dovunque il Figlio delle Stelle li guidava essi lo seguivano, e qualunque cosa il Figlio delle Stelle ordinava loro di fare, essi lo facevano. E quando trafiggeva con una canna puntuta gli occhi appannati di una talpa, essi ridevano, e quando scagliava pietre al lebbroso, anche allora ridevano. E in ogni cosa egli li dominava, e anch'essi divennero aridi di cuore al pari di lui.

Ora passò un giorno dal villaggio una vecchia mendicante. Le sue vesti erano strappate e cenciose, i piedi le sanguinavano a forza di camminare sulla dura massicciata della strada, e il suo stato era assai pietoso. E poiché era affaticata sedette sotto un castagno per riposarsi.
Ma non appena il Figlio delle Stelle la vide, disse ai suoi compagni: «Guardate quella sudicia mendicante che siede sotto quel bell’albero dalle verdi foglie. Andiamo, cacciamola via subito di li, che è brutta e sgraziata».
Così le andò vicino e la prese a sassate, e la schernì, ed ella la guardò con gli occhi pieni di terrore, ma non distolse lo sguardo di dosso a lui. E quando lo Spaccalegna che segava ceppi in un cortile lì presso vide ciò che il Figlio delle Stelle stava facendo, accorse e lo rimproverò e gli disse: «Davvero tu sei arido di cuore e non conosci pietà: che male ti ha fatto questa povera donna che tu debba trattarla cosi?».
Ma il Figlio delle Stelle si invermigliò di collera e picchiò i piedi per terra e disse: «Chi sei tu per discutere le mie azioni? Io non sono figlio tuo per dover sottostare ai tuoi comandi!».
« Questo è vero,» rispose lo Spaccalegna « e tuttavia ho avuto pietà di te quando ti ho trovato nella foresta.»
E come la donna intese queste parole lanciò un grande grido e cadde in deliquio. E lo Spaccalegna la trasportò nella sua casa, e sua moglie si prese cura di lei, e quando ella rinvenne dal deliquio in cui era caduta le offrirono cibo e bevanda e la riconfortarono.
Ma ella rifiutò di bere e di mangiare, ma disse allo Spaccalegna: « Non hai tu detto forse che il bambino è stato trovato nella foresta? E non sono forse trascorsi dieci anni da quel giorno?».
E lo Spaccalegna rispose: «Sì, fu nella foresta che io lo trovai, dieci anni da oggi».
«E quali contrassegni recava indosso?» esclamò la donna. « Non portava forse intorno al collo una collana d’ambra, e non era per caso avvolto in un mantello intessuto d’oro e trapunto di stelle?»
«Sì,» replicò lo Spaccalegna «è proprio così come tu dici.» E tolse il mantello e il vezzo d’ambra dal cassone in cui erano riposti, e li mostrò alla donna.
E quando ella li vide pianse di gioia e disse: «E’ lui il mio piccolo figlio che io ho smarrito nella foresta. Ti prego mandamelo subito poiché per andare in cerca di lui ho attraversato il mondo intero».
Perciò lo Spaccalegna e la moglie uscirono fuori e chiamarono il Figlio delle Stelle e gli dissero: «Entra in casa e vi troverai tua madre che ti aspetta».
Allora egli corse in casa, pieno di meraviglia e di grande allegrezza. Ma quando vide colei che lo aspettava ebbe un riso di scherno e disse: «Come! Dov’è mia madre? Poiché io non vedo qui nessuno, all’infuori di questa lurida mendicante ».
E la donna gli rispose: «Sono io tua madre».
«Tu sei pazza a osare di dire questo!» gridò il Figlio delle Stelle con voce irosa. «Io non sono tuo figlio, poiché tu sei una mendicante, e sei brutta e stracciata. Perciò vattene subito, e che io non veda più la tua sudicia faccia.»
«No, no, poiché tu sei veramente la mia piccola creatura, che io ho partorito nella foresta» gridò la donna, e cadde in ginocchio, e gli tese le braccia. «I masnadieri ti rubarono dal mio seno, e ti lasciarono a morire nella foresta» mormorò. «Ma io ti ho riconosciuto non appena ti vidi, e ho riconosciuto anche i tuoi contrassegni, il mantello di tessuto d’oro e la collana d’ambra. Perciò ti prego, vieni con me, poiché da un capo all’altro della terra ho vagato in cerca di te. Vieni con me, figlio mio, poiché io ho bisogno del tuo amore.»
Ma il Figlio delle Stelle non avanzò di un passo, e chiuse contro di lei le porte del suo cuore, né si udiva altro suono fuorché il pianto di dolore della donna.
E alla fine egli le parlò, e la sua voce era dura e amara: « Se in verità tu sei mia madre,» disse « sarebbe meglio che tu te ne fossi restata lontana, anziché venire qui a portarmi vergogna, giacché io credevo di essere il figlio di una Stella, non il figlio di un’accattona, come tu dici che sono. Perciò vattene, e non farti vedere mai più».
«Ahimè, figlio mio,» gridò la donna « non vuoi darmi un bacio prima che io me ne vada? Poiché molto ho sofferto per poterti ritrovare!»
«No,» disse il Figlio delle Stelle «perchè sei così ributtante a guardarsi che preferirei baciare la vipera o il rospo piuttosto che baciare te.»
Così la donna si alzò, e si allontanò nella foresta piangendo, e quando il Figlio delle Stelle vide che se n’era andata, si rallegrò, e corse a raggiungere i suoi compagni poiché voleva giocare con loro.
Ma quando lo videro venire quelli lo schernirono e gli dissero: «Come? Se sei ributtante come il rospo, e disgustoso come la vipera! Vattene, non vogliamo che tu giochi con noi! — E lo spinsero fuori del giardino».
E il Figlio delle Stelle aggrottò la fronte e mormorò tra sé: «Perché mi dicono questo? Andrò al pozzo e mi ci specchierò, ed esso mi parlerà della mia bellezza».
Così andò al pozzo e ci si specchiò, ma ecco! la sua faccia era come la faccia di un rospo, e il suo corpo si era fatto squamoso come il corpo di un serpe. Ed egli si buttò sull’erba e pianse, e si disse: "Certo questo mi è accaduto a causa del mio peccato, perché ho rinnegato mia madre, e l’ho cacciata via, e sono stato orgoglioso e crudele con lei. Perciò me ne andrò e la cercherò da un capo all’altro della terra, né avrò pace finché non 1’avrò ritrovata".
Allora venne da lui la piccola figlia dello Spaccalegna e gli posò una mano sulla spalla e gli disse: «Che importa se hai perduta la tua bellezza? Rimani con noi, e io non ti schernirò».
Ma egli le rispose: « No, poiché sono stato crudele con mia madre, e questa sciagura mi e stata mandata per punirmi. Perciò devo partirmene subito di qui, e andare ramingando per il mondo in cerca di mia madre, e invocare il suo perdono».
Perciò si allontanò di corsa nella foresta e chiamò a gran voce la madre perché tornasse a lui, ma non ebbe risposta. Tutto il giorno la chiamò, e al calar del sole si coricò per dormire su un letto di foglie, e gli uccelli e gli animali fuggirono lontani da lui, poiché si rammentavano della sua crudeltà, ed egli fu solo, fuorché per il rospo che lo spiava e la vipera che gli strisciava pigra accanto.
E il mattino si levò e colse bacche amare dagli alberi e le mangiò, e prese a camminare per il vasto bosco, piangendo perdutamente. E a tutte le cose che incontrava chiedeva se per caso avessero veduta sua madre.
Disse alla Talpa: «Tu sei capace di scendere sotterra. Dimmi, mia madre è lì?».
E la Talpa gli rispose: «Tu mi hai accecati gli occhi: come posso saperlo?».
Disse al Fanello: «Tu sai volare sopra le cime degli alberi più alti, e puoi scorgere l’intero universo. Dimmi, riesci a vedere mia madre?».
E il Fanello gli rispose: «Tu mi hai mozzate le ali per il tuo piacere. Come posso volare?».
E allo Scoiattolino che viveva nell’abete, ed era solo, disse: «Dov’è mia madre?».
E lo Scoiattolo rispose: «Tu mi hai uccisa la mia. Forse cerchi ora di uccidere anche la tua?».
E il Figlio delle Stelle pianse e chinò il capo e chiese perdono alle creature di Dio, e proseguì il suo cammino per la foresta in cerca della vecchia mendica. E al terzo giorno sbucò al capo opposto della foresta e discese nella pianura.
E quando attraversava i villaggi i ragazzi lo schernivano e gli gettavano pietre, e i contadini non gli permettevano di dormire nemmeno nelle stalle, per timore che per la sua presenza il grano ripostovi si coprisse di muffa, tanto ripugnante era a vedersi, e i loro braccianti lo scacciavano, e non vi era nessuno che avesse pietà di lui. Ma in nessun luogo poté saper notizia alcuna della vecchia mendica ch’era sua madre, sebbene per la durata di tre anni andasse ramingo per il mondo, e spesso gli sembrava di vederla sulla strada davanti a sé, e la chiamava, e la rincorreva, fino a che le pietre aguzze gli laceravano i piedi e glieli facevano sanguinare. Ma non riuscì mai a raggiungerla, e coloro che abitavano presso il ciglio delle strade negarono persino di averla mai veduta, o di aver veduta una donna che le assomigliasse, e si facevano beffe del suo dolore. Per la durata di tre anni andò vagando per il mondo, e nel mondo non c’era né amore né caritatevole pietà per lui, ma era proprio un mondo come quello che egli stesso aveva foggiato per il suo piacere al tempo del suo grande orgoglio.

E una sera giunse alle porte di una città turrita che sorgeva in prossimità di un fiume, e affaticato e indolenzito com’era, fece per entrarvi. Ma i soldati di guardia incrociarono le alabarde dinnanzi all’ingresso, e gli chiesero burberamente: «Che affari hai in citta? ».
«Cerco mia madre,» rispose il Figlio delle Stelle «e, vi prego, lasciatemi passare, poiché può essere che ella si trovi in questa città.»
Ma i soldati lo derisero, e uno di loro scosse la barba nera, depose lo scudo ed esclamo: «Davvero che tua madre non sarà contenta quando ti vedrà, poiché sei più sgraziato del rospo della palude, e della vipera che striscia nella marcita. Vattene, vattene! Tua madre non abita in questa città ».
E un altro che reggeva nella mano uno stendardo giallo gli disse: «Chi è tua madre, e per quale motivo vai in cerca di lei?».
E il Figlio delle Stelle gli rispose: «Mia madre è una mendicante al pari di me, e io l’ho trattata crudelmente, perciò ti prego, lasciami passare che io possa chiederle di perdonarmi, se per caso ella ha indugiato in questa città ». Ma i soldati non gli permisero di entrare, e lo punzecchiarono con le loro lance.
E mentre il Figlio delle Stelle si allontanava piangendo, un uomo la cui armatura era cesellata a fiori d’oro, e sul cui elmo stava accovacciato un leone alato, si avvicinò e s’informò dai soldati chi era colui che aveva domandato di essere ammesso entro le mura della città. E quelli gli risposero: «E’ un mendicante, figlio di una mendicante, e noi lo abbiamo scacciato».
«Non fatelo!» gridò 1’uomo ridendo. «Venderemo quell’essere ributtante come schiavo, e il suo prezzo sarà il prezzo di una ciotola di vino dolce.»
E un vecchio dal volto malvagio che passava di là chiamò forte e disse: «Lo comprerò io per quel prezzo». E quando ebbe pagato il prezzo pattuito prese per mano il Figlio delle Stelle e lo condusse entro la città.
E dopo essere passati per molte strade giunsero a una porticina incastrata in un muro che era ricoperto da un albero di melograno. E il vecchio toccò la porta con un anello di diaspro inciso e la porta si aprì, ed essi scesero giù per cinque gradini di bronzo in un giardino colmo di papaveri neri e di giare verdi di terra cotta al sole. E il vecchio si tolse allora dal turbante una sciarpa di seta a figure e con quella bendò gli occhi del Figlio delle Stelle, e lo spinse dinnanzi a sé. E quando gli fu tolta la benda dagli occhi il Figlio delle Stelle si trovò in un sotterraneo di prigione, che era rischiarato da una lampada di corno.
E il vecchio gli pose davanti del pane muffito su un tagliere e gli disse: «Mangia!». E dell’acqua salmastra in una tazza e gli disse: «Bevi». E quando il Figlio delle Stelle ebbe mangiato e bevuto il vecchio uscì, chiudendo l’uscio a chiave dietro di sé e sprangandolo con una catena di ferro.

E il giorno seguente il vecchio, che in realtà era il più astuto mago della Libia e aveva appreso la sua arte da uno che viveva nelle tombe del Nilo, entrò da lui e corrugò la fronte e disse: «In un bosco vicino ai cancelli di questa città di Giaurro vi sono tre monete d’oro. Una è di oro bianco, la seconda di oro giallo, e la terza di oro rosso. Quest’oggi tu mi porterai la moneta d’oro bianco, e se non me la porterai io ti batterò con cento scudisciate. Vattene presto, e al tramonto ti aspetterò alla porta del giardino. Bada di portarmi l’oro bianco, che altrimenti sarà un guaio per te, poiché tu sei il mio schiavo, e io ti ho comprato per il prezzo di una ciotola di vino dolce ». E bendò gli occhi del Figlio delle Stelle con la fascia di seta a figure, e lo condusse attraverso la casa, e attraverso il giardino di papaveri, e su per i cinque gradini di bronzo. E dopo avere aperto l’usciolo con l’anello lo mandò fuori nella strada.

E il Figlio delle Stelle uscì dalle porte della città, e giunse al bosco di cui il Mago gli aveva parlato.
Ora questo bosco era bellissimo a vedersi dal di fuori, e pareva tutto pieno di uccelli canori e di fiori dal dolce profumo, e il Figlio delle Stelle vi entrò con gioia. Ma quella bellezza poco gli giovò, poiché dovunque andava subito pruni e sterpi sprizzavano su dal suolo e lo circondavano, e ortiche malvagie lo pungevano, e il cardo lo trafiggeva coi suoi aculei, cosicché egli si trovò in disperata angoscia. Né gli fu possibile trovare in alcun luogo la moneta d’oro bianco di cui il Mago gli aveva parlato, per quanto la cercasse dall’alba al mezzogiorno e dal mezzogiorno al tramonto. E al tramonto si avviò verso casa piangendo amaramente, poiché sapeva quale sorte era in serbo per lui.
Ma quando fu giunto al limitare del bosco intese giungere da un cespuglio un grido, simile a un grido di creatura in pena. Allora, dimenticando il proprio dolore, corse indietro e vide un Leprotto che si era impigliato in una tagliola che qualche cacciatore gli aveva tesa.
E il Figlio delle Stelle ne ebbe pietà, e lo liberò e gli disse: « Benché io stesso non sia che uno schiavo, tuttavia posso ridarti la tua libertà».
E il Lepre gli rispose e disse: «Sì, tu la libertà me l’hai ridata; che cosa posso darti io in cambio?».
E il Figlio delle Stelle gli disse: «Sto cercando una moneta di oro bianco, né riesco a trovarla in alcun luogo, e se non la porto al mio padrone egli mi percuoterà».
«Vieni con me,» disse il Lepre «e io ti condurrò nel posto giusto, poiché so dove è nascosta, e per quale scopo.»
Così il Figlio delle Stelle seguì il Lepre, ed ecco, nella fenditura di una grande quercia, vide la moneta d’oro bianco che cercava. E una viva gioia lo invase, e afferrò la moneta, e disse al Lepre: «Il servigio che io ti ho reso tu me lo hai restituito cento volte e la bontà che ti ho dimostrata me l’hai ripagata a iosa».
«No,» disse il Lepre «poiché come tu hai trattato con me, così ho trattato io con te.» E con queste parole sfrecciò via veloce, e il Figlio delle Stelle si avviò verso la città.
Ora presso la porta della città era seduto un lebbroso. II suo volto era ricoperto da un cappuccio di lino grigio, e attraverso le fenditure praticate perché potesse vedere, le pupille gli lucevano come carboni ardenti. E come vide venire il Figlio delle Stelle, picchiò su una ciotola di legno, e agito il suo campanello e lo chiamò e disse: «Dammi una moneta, o io morrò di fame, poiché mi hanno scacciato dalla città, e non vi è nessuno che abbia pietà di me».
«Ahimè!» gridò il Figlio delle Stelle. «Non ho che un’unica moneta nella mia bisaccia, e se non la porto al mio padrone egli mi batterà, poiché io sono il suo schiavo.»
Ma il lebbroso lo supplicò e lo implorò, finché il Figlio delle Stelle ne ebbe pietà e gli diede la moneta d’oro bianco.
E quando giunse alla casa del Mago, costui gli aperse e lo condusse dentro e gli chiese: «Hai la moneta di oro bianco? ». E il Figlio delle Stelle rispose: «Non l’ho». Allora il Mago si buttò su di lui e lo percosse, e gli pose dinnanzi il tagliere vuoto e gli disse: «Mangia!». E una tazza vuota, e gli disse: «Bevi!». E lo ricacciò nel sotterraneo.
E il mattino seguente il Mago venne da lui e gli disse: «Se quest’oggi tu non mi porterai la moneta di oro giallo, per certo io ti terrò come mio schiavo, e ti darò trecento sferzate ».
Così il Figlio delle Stelle si recò nel bosco, e tutto il giorno frugò in cerca della moneta di oro giallo, ma in nessun luogo poté trovarla. E al tramonto si sedette e incominciò a piangere, e mentre piangeva venne da lui il Leprotto che egli aveva salvato dalla tagliola.
E il Lepre gli disse: «Perché piangi? E che cosa cerchi nel bosco? ».
E il Figlio delle Stelle gli rispose: «Cerco una moneta di oro giallo che è nascosta qui, e se non la trovo il mio padrone mi batterà e mi terrà come suo schiavo».
«Seguimi!» gridò il Lepre, e corse per il bosco finché giunse a una polla d’acqua. E in fondo alla polla d’acqua c’era la moneta di oro giallo.
«Come potrò ringraziati?» disse il Figlio delle Stelle. « Perché, ecco! questa è la seconda volta che tu mi hai soccorso.»
«Tu hai avuto pietà di me la prima volta» disse il Lepre, e saettò via veloce.
E il Figlio delle Stelle prese la moneta d’oro giallo, e la ripose nella sua bisaccia, e si affrettò verso la città. Ma il lebbroso lo vide venire e gli corse incontro e gli si inginocchiò davanti e gridò: «Dammi una moneta o altrimenti io morrò di fame».
E il Figlio delle Stelle gli disse: «Non ho nella mia bisac¬cia che un’unica moneta d’oro giallo, e se non la porto al mio padrone egli mi batterà e mi terra come suo schiavo».
Ma il lebbroso lo scongiurò così disperatamente che alla fine il Figlio delle Stelle ebbe pietà di lui, e gli diede la moneta d’oro giallo.
E quando giunse alla casa del Mago, questi gli aperse e lo condusse dentro e gli chiese: «Hai la moneta d’oro giallo? ». E il Figlio delle Stelle disse: «Non l’ho». Allora il Mago si buttò su di lui e lo percosse, e lo caricò di catene e lo cacciò nel sotterraneo buio.
E il mattino seguente il Mago venne da lui e gli disse: «Se oggi tu mi porterai la moneta di oro rosso io ti lascerò libero, ma se tu non me la porterai io ti ucciderò».
Così il Figlio delle Stelle si recò nel bosco, e tutto il giorno frugò in cerca della moneta di oro rosso, ma in nessun luogo poté trovarla. E a sera si sedette e pianse, e mentre piangeva venne da lui il Leprotto.
E il Lepre gli disse: «La moneta d’oro rosso che tu cerchi si trova nella caverna alle tue spalle. Perciò non piangere più, ma sii contento».
«Come potrò ricompensarti?» esclamò il Figlio delle Stelle. «Poiché questa e la terza volta che tu mi soccorri.»
«Tu hai avuto pietà di me la prima volta» disse il Lepre, e si allontanò di corsa.
E il Figlio delle Stelle entrò nella caverna, e nell’angolo più riposto di essa trovò la moneta d’oro rosso. Così la ripose nella sua bisaccia, e si affrettò verso la città. E il lebbroso, come lo vide venire, si fermò nel mezzo della via e lo chiamò a gran voce e gli disse: «Dammi la moneta d’oro rosso, o io morirò». E il Figlio delle Stelle di nuovo ne ebbe pietà, e gli diede la moneta d’oro rosso dicendo: «Il tuo bisogno è maggiore del mio». E nondimeno il suo cuore era grave, poiché sapeva quale destino amaro lo attendeva.

Ma ecco! Mentre oltrepassava la porta della città le guardie s’inchinarono e gli resero omaggio dicendo: «Come è bello il nostro signore!». E una folla di cittadini lo seguirono, e gridavano a gran voce: «Non vi è nessuno più bello di lui al mondo!». Tanto che il Figlio delle Stelle pianse e si disse: «Mi scherniscono, e si fanno beffe della mia infelicità». Ma così grande era il concorso di popolo che smarrì la via, e si trovò alla fine in una gran piazza, dove sorgeva il palazzo di un Re.
E le porte del palazzo si spalancarono e i sacerdoti e gli alti dignitari della città ne uscirono a incontrarlo, e si prosternarono davanti a lui dicendo: «Tu sei il nostro signore, colui che aspettavamo, il figlio del nostro Re».
Ma il Figlio delle Stelle rispose loro: «Io non sono figlio di re, sono il figlio di una povera mendicante. E perché dite che sono bello, poiché so di essere ripugnante a vedersi?».
Allora colui la cui armatura era cesellata a fiori d’oro e sul cui elmo stava accovacciato un leone alato gli tese uno scudo a mo’ di specchio ed esclamò: «Come può il mio signore affermare di non essere bello? ».
E il Figlio delle Stelle si specchiò, ed ecco che il suo volto era ritornato liscio come un tempo, e la sua avvenenza era divenuta ancora più perfetta, ed egli scorse nei suoi occhi qualcosa che non vi aveva mai veduta prima.
E i sacerdoti e gli alti dignitari gli si inginocchiarono davanti e gli dissero «Fu profetizzato in antico che in questo giorno sarebbe venuto colui che ci avrebbe governati. Perciò vogliamo che il nostro signore accetti questa corona e questo scettro e regni sopra di noi con la sua giustizia e la sua pietà».
Ma egli rispose loro: «Non ne sono degno, poiché ho rinnegato mia madre che mi ha generato, ne avrò pace finché non l’avrò ritrovata e non avrò ottenuto il suo perdono. Perciò lasciatemi andare, poiché devo nuovamente errare per il mondo e non posso indugiare qui, anche se voi mi offrite la corona e lo scettro». E così dicendo distolse il viso da essi e guardò in direzione della via che conduceva alle porte della città. Ed ecco che tra la folla che si accalcava intorno ai soldati vide la mendicante che era sua madre, e al suo fianco stava il lebbroso che egli aveva incontrato per tre volte lungo il ciglio della strada.
E un grido di gioia proruppe dalle sue labbra, ed egli corse tra la folla e si inginocchiò a baciare le ferite che piagavano i piedi di sua madre e le bagnò delle sue lacrime. Piegò il capo nella polvere e singhiozzando come colui il cui cuore è spezzato disse: «Madre, ti ho rinnegata nell’ora del mio orgoglio. Accettami nell’ora della mia umiliazione. Madre, io ti ho dato odio: dammi tu amore. Madre, io ti ho respinta. Ricevi tu ora il tuo figliuolo». Ma la mendicante non gli diede risposta.
Allora egli protese le mani e abbracciò i bianchi piedi del lebbroso, e gli disse: «Tre volte ti ho dimostrato misericordia: chiedi a mia madre di parlarmi, almeno una sola volta». Ma il lebbroso non proferì parola.
Allora egli pianse disperatamente e disse: «Madre, la mia pena è troppo forte perché io la possa sopportare. Dammi il tuo perdono, e lasciami ritornare nella foresta». Allora la mendicante gli posò una mano sul capo, e gli disse: «Alzati». E a sua volta anche il lebbroso gli posò una mano sul capo e gli disse: «Alzati».
Ed egli si levò in piedi e lì guardò, e, o meraviglia!, davanti a se vide un Re e una Regina.
E la Regina gli disse: «Questo è tuo padre che tu hai aiutato».
E il Re disse: «Questa è tua madre cui hai lavati i piedi con le tue lagrime».
E lo baciarono e abbracciarono, e lo condussero nel palazzo e lo coprirono di splendide vesti e gli posarono la corona sul capo, e gli misero lo scettro tra le mani, ed egli regnò sulla città che sorgeva presso il fiume e vi signoreggio. A tutti dimostrò grande giustizia e misericordia: bandì il cattivo Mago e inviò molti doni allo Spaccalegna e a sua moglie, e ai loro figliuoli distribuì grandi onori. Né permise che alcuno usasse crudeltà ad animali od uccelli, ma insegno l’amore la bontà la carità: ai poveri diede cibo, agli ignudi vestimento, e in tutto il paese vi fu pace e abbondanza.
Tuttavia breve fu il suo regno, poiché troppo intenso era stato il suo patimento, e troppo addentro lo aveva bruciato il fuoco dell’espiazione, cosicché in capo a tre anni morì. E il Re che venne dopo di lui governò spietatamente.




IL GIOVANE RE di Oscar Wilde

Era la notte precedente al giorno fissato per l’incoronazione, e il Giovane Re era seduto, solo, nella sua splendida camera. Il fanciullo, poiché tale egli era, aveva solo sedici anni, non era affatto dispiaciuto che se ne fossero andati, e s’era lasciato cadere con un gran sospiro di sollievo sui morbidi cuscini del suo giaciglio ricoperto di ricche coltri; ora giaceva lì, gli occhi selvaggi e la bocca dischiusa, simile a un giovane animale della foresta insidiato dai cacciatori.
E in verità erano stati proprio dei cacciatori a trovarlo, incontrandolo quasi per caso mentre lui, seminudo e con la zampogna in mano, guidava il gregge del povero capraio che lo aveva allevato e di cui s’era sempre creduto figlio. Il figlio dell’unica figlia del Re, nato da un matrimonio segreto con un uomo di ceto inferiore (uno straniero, secondo alcuni, che aveva fatto innamorare la figlia del Re per la sua straordinaria bravura nel suonare il liuto; secondo altri un artista di Rimini, a cui la Principessa aveva concesso molto, forse troppo onore, e che successivamente era scomparso dalla città lasciando incompiuto il suo lavoro alla Cattedrale) era stato sottratto alla madre, ancora in fasce, mentre lei dormiva, e affidato alle cure di un umile pastore e di sua moglie, una coppia senza figli che viveva in un angolo remoto della foresta, distante dalla città più di un giorno di viaggio. Un paio d’ore dopo il risveglio, la candida fanciulla che gli aveva dato la vita era morta; non si seppe mai se di dolore, di peste come asserì il Medico di Corte o, come insinuarono altri, a opera di un possente veleno italiano discialto in una coppa di vino speziato. Di fatto, nello stesso momento in cui il fido scudiero che portava il bimbo in arcione smontava di sella dal suo cavallo esausto per bussare alla rustica porta della capanna del capraio, il corpo della Principessa veniva calato in una tomba aperta che era stata scavata in un camposanto deserto, oltre le porte della città, una tomba dove si diceva giacesse un altro corpo, quello di un giovane di meravigliosa ed esotica bellezza, dalle mani legate dietro la schiena con una corda annodata, e dal petto trafitto da molte rosse ferite di pugnale.
Questa, almeno, era la storia che si sussurravano l’un l’altro gli uomini della contea. Di fatto, il vecchio Re, sul suo letto di morte, o spinto dal rimorso per la sua grave colpa o semplicemente desideroso che il regno fosse conservato a un membro della sua famiglia, aveva mandato a chiamare il fanciullo e, alla presenza del Consiglio, lo aveva nominato suo erede.

Fin dal primo istante del suo riconoscimento egli parve rivelare i segni di un singolare amore per la bellezza, una passione che avrebbe influito molto su tutta la sua vita. Coloro che l’avevano scortato agli appartamenti messi a sua disposizione parlarono spesso del grido di piacere che gli proruppe dalle labbra alla vista degli abiti leggiadri e dei prezio¬si gioielli preparati per lui, e della gioia quasi feroce con cui gettò via da sé la sua rozza tunica di cuoio e il grossolano mantello di pelle di pecora. (…)
Tutte le cose rare e preziose esercitavano un grande fascino su di lui, e nella sua smania di procurarsene aveva mandato molti mercanti in lande remote, alcuni a trafficare ambra coi rozzi pescatori dei mari nordici, altri in Egitto, alla ricerca della mitica turchese verde che si trova solo nelle tombe dei re e si dice sia dotata di proprietà magiche, altri in Persia ad acquistare tappeti serici e vasellame dipinto, altri ancora in India per tornarne carichi di avorio istoriato, pietre di luna e bracciali di giada, legno di sandalo e smalti azzurri, veli e scialli di lana pregiata.
Ma la cura che lo aveva tenuto più d’ogni altra occupato era stata la preparazione del vestito di gala da indossare per l’incoronazione, il manto laminato d’oro, e la corona tempestata di rubini, e lo scettro con le sue perle intrecciate a file e a cerchi. Principalmente a questo stava egli pensando quella notte, mentre guardava il grosso ceppo di pino ardere sotto la cappa del camino. (…) Quando dall’orologio della torre risuonò la mezzanotte, egli toccò un campanello, e i suoi paggi entrarono e lo svestirono con molte cerimo¬nie, spruzzandogli acqua di rosa sulle mani e cospargendo di fiori i guanciali. Poco dopo che ebbero lasciato la stanza, il fanciullo si addormentò.
E mentre dormiva fu visitato in sogno da visioni. E queste furono le sue visioni.
Si vide in una soffitta lunga e bassa, in mezzo al ronzio e allo strepito di molti telai. La luce del giorno trapelava scialba dalle inferriate delle finestre, mostrandogli le sagome magre dei tessitori chini sulle loro trame. Bimbi pallidi, dall’aria sofferente, stavano rannicchiati sulle enormi travi del soffitto. Quando le spole saettavano attraverso l’ordito, i tessitori sollevavano i pesanti battenti di legno, e quando le spole si arrestavano li lasciavano cadere e comprimevano i fili. I loro volti erano scavati dal digiuno e le loro mani scarne tremavano convulsamente. Alcune donne sparute sedevano dinanzi a un tavolo a cucire. Un atroce fetore riempiva il locale. L’aria era putrida e greve; le pareti gocciolavano trasudando umidità.
Il Giovane Re si accostò a uno dei tessitori, sostò accanto a lui e lo ossenò. E il tessitore gli rivolse uno sguardo bieco e disse: «Perché stai qui a fissarmi? Sei una spia mandata dal nostro padrone?».
«Chi è il tuo padrone?», chiese il Giovane Re.
«Il nostro padrone!», esclamò amaramente il tessitore «E’ un uomo come me. Fra noi c’è una sola differenza: che lui indossa vesti pregiate e io vado in giro coperto di stracci, che io sono debole per la fame e lui soffre invece per eccesso di nutrizione.»
«Questo è un paese libero», disse il Giovane Re, «e tu non sei schiavo di nessuno.»
«In guerra», rispose il tessitore, «i più forti fanno schiavi i più deboli, e in pace i ricchi fanno schiavi i poveri. Dobbiamo lavorare per vivere, e il nostro salario è così misero che moriamo. Noi fatichiamo tutto il giorno per loro, ed essi ammucchiano l’oro nei forzieri, i nostri figli avvizziscono prima del tempo, e i visi di coloro che amiamo diventano duri e cattivi. Noi pigiamo l’uva, e un altro beve il vino. Noi seminiamo il grano, e la nostra madia è vuota. Noi portiamo catene, anche se nessun occhio le vede; e siamo schiavi, anche se gli uomini ci chiamano liberi.»
«E’ così per tutti?», chiese il Giovane Re.
«E così per tutti», rispose il tessitore, «per i giovani come per i vecchi, per le donne come per gli uomini, per i bimbi come per coloro che sono oppressi dagli anni. I mercanti ci sfruttano, e noi siamo costretti dalla necessità a piegarci ai loro ordini. Il prete ci sorpassa a cavallo e sgrana il suo rosario, e nessuno si dà cura di noi. Per i nostri vicoli senza sole striscia la Povertà coi suoi occhi famelici, e la segue dappresso la Colpa dal volto terreo. Al mattino è la Miseria che ci sveglia e di notte ci fa compagnia la Vergogna. Ma a te cosa possono importare queste tristezze? Tu non sei uno di noi. Il tuo viso è troppo felice.» E si volse dall’altra parte accigliato, e gettò la spola nell’ordito, e il Giovane Re vide che i fili della trama erano d’oro.
E un grande terrore lo afferrò, e chiese al tessitore: «Che vestito è quello che stai tessendo?».
«E’ il vestito per l’incoronazione del Giovane Re», rispose il tessitore, «ma a te che importa?»
E il Giovane Re gettò un grido acuto e si destò, ed ecco, era nella sua stanza, e dalla finestra gli apparve la luna color miele, sospesa nell’aria del crepuscolo.
E si riaddormentò e di nuovo fu visitato da visioni, e queste furono le sue visioni.
Si vide disteso sul ponte di una enorme galea, che avanzava spinta dai remi di cento schiavi. Su un tappeto accanto a lui sedeva il capitano della galea. Era nero come l’ebano, e il suo turbante era di seta cremisi. Grandi anelli d’argento pendevano dagli spessi lobi delle orecchie, e nelle mani reggeva una bilancia d’avorio.
Gli schiavi erano nudi, avevano solo uno straccio intorno ai lombi, e ognunò era incatenato al suo vicino. Il sole picchiava rovente, e i negri correndo su e giù lungo il ponte li sferzavano con scudisci di cuoio. Le braccia scarnite si tendevano affondando i remi pesanti nell’acqua. Spruzzi salati volavano dalle pale. (…)
A mezzogiorno avevano gettato l’ancora e ammainato la vela. I negri entrarono nella stiva e ne estrassero una lunga scala di corda, appesantita da grossi pezzi di piombo. Il capitano la gettò su un fianco della nave, fissandone l’estremità a due uncini di ferro. Poi i negri agguantarono il più giovane degli schiavi e dopo averlo liberato dalle catene, gli riempirono di cera narici e orecchie, e gli attaccarono una grossa pietra alla cintola. Egli si lasciò scivolare faticosamente giù per la scala, e scomparve nel mare. Poche bollicine salirono a fior d’acqua là dove s’era immerso. Dal parapetto della galea altri schiavi sogguardavano incuriositi. A prua sedeva un incantatore di squali che percuoteva monotono un tamburo.
Dopo qualche tempo il tuffatore riemerse, e si aggrappò ansimante alla scala con una perla nella mano destra. I negri gliela strapparono e lo respinsero di nuovo in acqua. Gli schiavi si assopirono sui remi.
Più e più volte il tuffatore riapparve a fior d’acqua, e ogni volta recava nella mano una bellissima perla. Il capitano le pesava e le riponeva in un sacchetto di cuoio verde.
Il Giovane Re avrebbe voluto parlare, ma la sua lingua sembrava aderire al palato, e le labbra si rifiutavano di muoversi. I negri parlottavano fra loro, e cominciarono a litigare per una collana di perline colorate. Due cicogne continuavano a volare intorno al vascello.
Allora il tuffatore riemerse per l’ultima volta, e la perla che recava nella mano era più bella di tutte le perle di Ormuz, poiché aveva la forma della luna piena ed era più bianca della stella del mattino. Ma il volto dello schiavo s’era fatto stranamente pallido, e quando s’abbatté sulla tolda il sangue gli sgorgò da nari e orecchie. Per un poco fu squassato da brividi convulsi, poi rimase immobile. I negri alzarono le spalle, e gettarono il corpo in mare.
E il capitano della galea rise, e la sua mano avida afferrò la perla e dopo averla osservata se la premette contro la fronte e s’inchinò. «E destinata», disse, «allo scettro del Giovane Re», e fece cenno ai negri di sollevare l’ancora.
E quando il Giovane Re udì quelle parole gettò un grido acuto, e si svegliò, e dalla finestra vide le lunghe dita grigie dell’alba ghermire le stelle che Si dileguavano.
E si riaddormentò e di nuovo fu visitato da visioni, e queste furono le sue visioni.
Si vide errare in un bosco tenebroso, pieno di strani frutti e di bellissimi fiori velenosi. Al suo passaggio sibilavano vipere, e variopinti pappagalli volavano stridendo di ramo in ramo. Enormi tartarughe giacevano attonite sul fango bollente. Gli alberi erano popolati di scimmie e di pavoni.
Ed egli procedeva innanzi, finché giunse all’estremo lembo del bosco, e qui vide un’immensa moltitudine di uomini che si agitavano sul letto di un fiume prosciugato. Formicolando nei crepacci, essi scavavano pozzi profondi e vi scendevano dentro. Alcuni spaccavano la roccia con grandi scuri; altri frugavano nella sabbia. Sradicavano i cactus e ne calpestavano i fiori scarlatti. Correvano qua e là, lanciandosi richiami, e nessuno stava in ozio.
Dalle tenebre di una caverna Morte e Avarizia li scrutavano, e Morte disse: «Io sono stanca; dammi un terzo di quella gente e lasciami andare».
Ma Avarizia scosse il capo. «Sono i miei servi», rispose.
E Morte le chiese: «Che hai in mano?».
«Ho tre chicchi di grano», rispose quella. «Ma a te che importa?»
«Dammene uno», pregò Morte, «per piantarlo nel mio giardino; uno solo, e me ne andro.»
«Non ti darò nulla», disse Avarizia, e si nascose la mano nel lembo della veste.
E Morte rise, e prese una coppa, e la immerse nell’acqua di una pozza, e dalla coppa si levò Malaria. Costei passò in mezzo alla grande moltitudine, e un terzo di questa giacque morta. Una nebbia fredda la seguiva, e bisce acquatiche le facevano corteo.
E quando Avarizia vide che un terzo della moltitudine era morta, si picchiò il petto e pianse. Si picchiò il petto nudo, e urlava: «Hai ucciso un terzo dei miei servi. Va’ via di qui! C’è la guerra sui monti della Tartaria, e i re di entrambe le parti ti invocano. Gli Afgani hanno ucciso il bue nero, e marciano in battaglia. Hanno picchiato con le lance sugli scudi e si sono messi gli elmetti di ferro. Che te ne fai della mia vallata, perché vi indugi? Vattene, e non tornare più».
«No», rispose Morte, «finché non mi avrai dato un chicco di grano non me ne andrò.»
Ma Avarizia chiuse la mano, e serrò i denti. «Non ti darò nulla», mormorò.
E Morte rise, e raccolse una pietra nera, e la scagliò nella foresta, e da un cespuglio di cicuta selvatica balzò fuori Febbre avvolta in una veste di fuoco. Passò attraverso la moltitudine, e toccò gli uomini, e ogni uomo da lei toccato cadeva morto. L’erba avvizziva sotto il suo passo.
E Avarizia rabbrividì, e si coprì il capo di cenere. «Sei crudele», gridò, «sei crudele! C’è la carestia nelle città dell’lndia recinte di mura, e le cisterne di Samarcanda sono asciutte. Il Nilo non è straripato dagli argini, e i sacerdoti hanno maledetto Iside e Osiride. Vattene da chi ha bisogno di te, e lasciami i miei servi.»
«No», rispose Morte, «finché non mi avrai dato un chicco di grano non me ne andrò.»
«Non ti darò nulla», disse Avarizia.
E Morte rise nuovamente, e fischiò fra le dita, e volando attraverso l’aria venne una donna. Sulla fronte aveva scritto Peste, e intorno le vorticava uno stormo di macilenti avvoltoi. Essa spiegò le ali a coprire la vallata, e nessuno rimase vivo.
E Avarizia fuggì urlando attraverso la foresta, e Morte balzò sul suo cavallo rosso e galoppò via, e il suo galoppo era più veloce del vento.
E dalla melma del fondovalle uscirono strisciando draghi e orribili mostri squamosi, e gli sciacalli giunsero al trotto sulla sabbia, fiutando l’aria con le narici.
E il Giovane Re proruppe in pianto, e chiese: «Chi erano quegli uomini, e cosa andavano cercando?».
«Cercavano rubini per la corona di un re», rispose uno che gli stava alle spalle.
E il Giovane Re trasalì, e, voltandosi, vide un uomo in abito da pellegrino, con uno specchio d’argento in mano.
E impallidì, e chiese: «Di quale re?».
E il pellegrino rispose: «Guarda in questo specchio, e lo vedrai».
Ed egli guardò nello specchio, e, vedendo il proprio volto, gettò un grido acuto e si svegliò, e la fulgida luce del giorno invadeva già la stanza, e dagli alberi del giardino incantato gorgheggiavano gli uccelli. E il Ciambellano e gli altri dignitari di Stato entrarono a rendergli omaggio, e i paggi gli recarono la veste di gala laminata d’oro e gli porsero la corona e lo scettro.
E il Giovane Re, posandovi lo sguardo, li vide più belli che mai, più splendidi di qualsiasi cosa avesse mai visto. Ma egli si ricordò dei suoi sogni, e disse ai nobili: «Portate via queste cose, perché io non le metterò». E i cortigiani rimasero stupefatti, e alcuni di loro risero, pensando ch’egli facesse per celia.
Ma egli parlò di nuovo seriamente, e disse: «Portate via queste cose, e nascondetele al mio sguardo. Anche se è il giorno della mia incoronazione, io non le metterò. Poiché sul telaio del Dolore, e dalle bianche mani della Sofferenza, questa mia veste è stata intessuta. C’è Sangue nel cuore del rubino e Morte nel cuore della perla». E narrò loro dei suoi tre sogni.
E quando i cortigiani ebbero ascoltato, si guardarono l’un l’altro e mormorarono: «Di certo è pazzo; perché cos’è mai un sogno se non un sogno, e cos’è una visione se non una visione? Non sono cose reali, per cui ci si debba preoccupare. E che abbiamo mai a che fare, noi, con la vita di quelli che lavorano per noi? Non si dovrà mangiar pane, allora, finché non si è veduto il seminatore, né bere vino finché non si è parlato col vignaiolo?».
E il Ciambellano si rivolse al Giovane Re: «Mio Signore, ti prego di stornare da te questi pensieri cupi, e di indossare questa splendida veste, e porre sul tuo capo la corona. Infatti, come potrà il popolo sapere che sei il re, se non indosserai le vesti regali?».
E il Giovane Re lo guardò. «E’ così dunque?», gli chiese. «Non mi riconosceranno come re, se non indosserò le vesti regali?»
«Non ti riconosceranno, mio signore», ribadì il Ciambellano.
«Io credevo che vi fossero uomini regali», rispose, «ma sarà come tu dici. Comunque, io non indosserò queste vesti, né mi porrò in capo questa corona, e come sono entrato al palazzo, così ne uscirò.»
E ordinò a tutti di lasciarlo, a eccezione di un paggio che tenne come compagno, un giovinetto di un anno minore di lui. Costui scelse come suo personale valletto, e quando si fu deterso le membra in acqua chiara, aprì una cassapanca dipinta e ne estrasse la tunica di cuoio e il rozzo mantello di pelle di pecora che portava quando custodiva le irsute capre del capraio. Queste vesti indossò, e nella mano strinse il suo rude bastone da pastore.
E il piccolo paggio spalancò i suoi grandi occhi azzurri, e disse sorridendogli: «O mio signore, vedo il tuo manto e il tuo scettro, ma dov’è la tua corona?».
E il Giovane Re spiccò un ramo di edera selvatica che si arrampicava sul balcone e, piegandolo, ne fece un serto e se lo pose in capo.
Questa sarà la mia corona», rispose. (…)
E quando giunse alle soglie maestose della cattedrale, i soldati gli puntarono contro le alabarde e dissero: «Che cosa vuoi tu qui? Da questa porta nessuno può entrare eccetto il Re».
E il suo volto si accese di collera, e disse loro: «Io sono il Re», e scostò le alabarde e passò.
E quando il vecchio Vescovo lo vide entrare vestito da capraio, si levò sbalordito dal suo trono, e gli andò incontro, e disse: «Figlio mio, è forse questo l’abbigliamento di un re? E con quale corona ti incoronerò, e quale scettro metterò nella tua mano? In verità questo dovrebbe essere per te un giorno di gioia, non di avvilimento».
«E dovrà dunque Gioia indossare il vestito che ha foggiato Dolore?», disse il Giovane Re. E gli narrò dei suoi tre sogni.
E quando il Vescovo l’ebbe ascoltato aggrottò la fronte, e disse: «Figliolo, io sono vecchio, e nell’inverno dei miei giorni, e so che nel vasto mondo c’è tanta malvagità. Feroci briganti scendono dalle montagne a rapire i bambini, e li vendono ai Mori. I leoni stanno in agguato, spiando le carovane, e si awentano sui cammelli. Il cinghiale sradica il grano nella valle, e le volpi rodono le viti sul colle. I pirati devastano le rive del mare, e bruciano le barche dei pescatori, e si portano via le reti. Nelle paludi salate vivono i lebbrosi; hanno case intrecciate di giunchi, e nessuno vi si può avvicinare. I mendicanti vagano per le città, e mangiano insieme ai cani. In che modo potrai impedire che queste cose accadano? Prenderai nel tuo letto il lebbroso e accoglierai alla tua mensa il mendicante? Il leone ubbidirà al tuo cenno, e il cinghiale ti asseconderà? Non è più saggio di te Colui che ha creato la miseria? Perciò io non ti lodo per quel che hai fatto, ma ti prego di tornare al tuo Palazzo e rallegrarti in volto, e mettere la veste che si addice a un Re, e con la corona d’oro io ti incoronerò, e lo scettro di perle porrò nella tua mano. Quanto ai tuoi sogni, non pensarci più. Il fardello di questo mondo è troppo pesante perché un uomo possa reggerlo, e il dolore del mondo troppo grande perché il cuore di un uomo possa sopportarlo».
«E tu dici ciò in questa casa?»; chiese il Giovane Re; e passò oltre il Vescovo, e salì i gradini dell’altare, e si fermò di fronte all’immagine di Cristo.
Si fermò di fronte all’immagine di Cristo, e alla sua destra e alla sua sinistra erano i meravigliosi vasi d’oro, il calice del vino dorato, e la fiala con l’olio santo. Egli s’inginocchiò dinnanzi all’immagine di Cristo, e le grandi candele ardevano luminose presso il reliquiario ingemmato, e il fumo dell’incenso si attorcigliava in arabeschi azzurrini sulla volta. Chinò il capo in preghiera, e i sacerdoti nelle loro cappe rigide sgusciarono via dall’altare.
E d’un tratto un tumulto selvaggio si scatenò dalla strada, e i nobili irruppero nella chiesa con le spade sguainate e le piume ondeggianti e gli scudi di lucido acciaio.
«Dov’è questo sognatore di sogni?», gridarono. «Dov’è questo Re che si è abbigliato di stracci, questo ragazzo che disonora il nostro Stato? Ora lo uccideremo, perché è indegno di govemarci!»
E il Giovane Re chinò di nuovo il capo, e pregò, e quando ebbe finito la sua preghiera si levò, e voltandosi li guardò intristito.
Ed ecco che dalle vetrate dipinte la luce del sole si riversò a fiotti su di lui, e i raggi lo rawolsero in una veste assai più splendida di quella che era stata foggiata per il suo piacere. Il bastone morto fiorì, e diede gigli più bianchi delle perle. Il rovo secco fiorì, e diede rose più rosse dei rubini. Più bianchi delle perle preziose erano i gigli, e i loro steli erano di fulgido argento. Più rosse dei rubini maschi erano le rose, e le loro foglie erano d’oro massiccio.
In veste regale egli restava sull’altare, e gli sportelli del reliquiario ingemmato si dischiusero, e dal cristallo dell’ostensorio sfavillante rifulse una meravigliosa, mistica luce. In veste regale egli restava sull’altare, e la Gloria di Dio riempiva il luogo, e i santi nelle loro nicchie scolpite parvero muoversi. Nello splendido abito di un re egli stava dinnanzi a loro, e l’organo proruppe in musica, e i trombettieri fecero squillare le loro trombe, e i fanciulli della cantoria sciolsero i loro canti.
E il popolo cadde in ginocchio adorante, e i nobili rinfoderarono le loro spade, e fecero atto di omaggio, e il volto del Vescovo impallidì, e le sue mani tremarono. «Uno più grande di me ti ha incoronato!», gridò, e s’inginocchiò dinnanzi a lui.
E il Giovane Re scese dall’altar maggiore, e si diresse verso la sua casa, passando in mezzo al popolo. Ma nessuno osò guardarlo in volto, perché il suo volto era quello di un angelo.





L'usignolo e la rosa

di O.Wilde

Perché il cielo è buio la notte?

Perché l'universo è in espansione.
L'espansione diluisce la densità della materia e abbassa la temperatura della radiazione, così che oggi è di solo 2,7 gradi sopra lo zero assoluto. Il freddo e il vuoto sono gli effetti del lungo tempo necessario a favorire la vita.
Non deve stupire allora che il cielo di notte sia buio: non potremmo esistere in un universo in cui di notte non ci fossero le tenebre... il cielo è buio di notte perché gli uccellini possano cantare.

"Ha detto che danzerà con me fino all'alba se le porterò delle rose rosse, ma in tutto il mio giardino non c’è una sola rosa rossa."

Dal nido nella Quercia, udì l’Usignolo. Guardò curioso attraverso le foglie e vide il giovane Studente e i suoi begli occhi pieni di lacrime.
"Domani al gran ballo e se le porterò una rosa rossa lei danzerà con me tutta la sera. La terrò fra le mie braccia, poserà il capo sulla mia spalla e la mia mano stringerà la sua... Ma non c’è una rosa rossa in tutto il mio giardino."

"Ecco un vero innamorato" disse l'Usignolo.
"Perché piange?" chiese il piccolo Ramarro verde.
"Già, perché?" chiese la Farfalla che volteggiava qua e là inseguendo un raggio di sole.
"Piange per una rosa rossa" disse l'Usignolo.
"Per una rosa rossa! Che ridicolaggine!" e il Ramarro, che era un po' cinico, rise di gusto.

L'Usignolo capiva il segreto dolore dello Studente e restava silenzioso sulla Quercia a meditare sul mistero dell'Amore.
D'improvviso spiegò nel volo le sue ali brune e si librò nell'aria e come un'ombra aleggiò sul Roseto che cresceva sotto la finestra dello Studente.
"Dammi una rosa rossa" implorò "e ti canterò la mia canzone più dolce."
Ma il Roseto scosse il capo.
"L'inverno ha ghiacciato le mie vene e il gelo ha straziato i miei boccioli"
"Una sola rosa rossa è tutto ciò che ti chiedo" gridò l'Usignolo. "Non c'è proprio nessun modo per averla?"
"Un modo c’è ma è così terribile che non oso dirtelo."
"Dimmelo, io non ho paura."
"Se vuoi una rosa rossa devi formarla con la musica al chiaro della Luna e tingerla col sangue del tuo cuore. Devi cantare per me col petto contro una spina tutta la notte, e la spina deve trapassare il tuo cuore".
"La morte è un prezzo alto da pagare per una rosa rossa" disse l'Usignolo "e la vita è cara a tutti. E' così dolce indugiare nel bosco, guardare il Sole nel cocchio d'oro e la Luna in quello d'argento. Sentire il profumo della vitalba, delle campanule azzurre che si nascondono nella valle e dell'erica che fiorisce sul colle. Ma l'Amore è più prezioso della Vita, e cos'è mai il cuore di un uccellino paragonato al cuore di un uomo?"

Il giovane Studente era disteso nell'erba e il pianto non s'era ancora asciugato dai suoi begli occhi.
"Sii felice!" gli gridò l'Usignolo. "Sii felice! Avrai la tua rosa rossa!".
Ma lo Studente che capiva solo le parole che sono scritte sui libri, "Questa creatura ha stile" disse a se stesso "avrà anche sentimenti? No, è come la maggior parte degli artisti: tutta forma, nessuna sincerità. Non si sacrificherebbe per gli altri. Pensa soltanto alla musica, e tutti sanno che l'arte è egoista. Ha note stupende nella sua voce, peccato che non significhino nulla".
La Quercia invece capì e si rattristò poiché voleva molto bene al piccolo Usignolo che si era costruito il nido fra i suoi rami. "Cantami un'ultima canzone" gli sussurrò. "Mi sentirò molto sola quando te ne sarai andato".

Quando la Luna brillò nel cielo, l’Usignolo volò al Roseto e pose il suo petto contro la spina. Tutta la notte cantò e la fredda Luna di cristallo si chinò ad ascoltarlo. Prima cantò dell'amore che nasce nel cuore e sul ramo più alto del Roseto fiorì una rosa. Pallida come la nebbia sospesa sul fiume, tenue come le incerte orme del mattino.

"Più forte! premi! piccolo Usignolo" gridava il Roseto "o il Giorno spunterà prima che la rosa sia compiuta".
Così l'Usignolo premette più forte sulla spina e più e più forte si fece il suo canto, poiché cantava il nascere della passione.
"Più forte! piccolo Usignolo o il Giorno spunterà prima che la rosa sia compiuta".

E premette più forte ancora finché la spina gli toccò il cuore, un acuto spasimo di dolore. Più e più amaro era il dolore e più selvaggio si faceva il canto poiché ora cantava dell'Amore che è reso perfetto dalla Morte e che non muore. E la meravigliosa rosa diventò vermiglia come rosa del cielo d'Oriente.

Ma la voce dell'Usignolo si affievolì, le sue piccole ali cominciarono a sbattere e un velo scese sui suoi occhi. Allora proruppe in un ultimo slancio. La bianca Luna lo udì e dimenticò l'alba. La rosa rossa lo udì e aprì i suoi petali al mattino.
"Guarda! Guarda!" gridò il Roseto "la rosa è perfetta!". Ma l'Usignolo non rispose poiché giaceva nell'erba con la spina nel cuore.

A mezzogiorno lo Studente aprì la sua finestra e guardò fuori.
"Che meraviglioso colpo di fortuna. Una rosa rossa! E' così bella che avrà un nome latino".
Si sporse, la colse, poi si mise il cappello e corse a casa della sua amata. "Ecco la rosa più rossa di tutto il mondo. La porterai stasera sul cuore"
Ma la fanciulla guardò lo Studente.
"Non è intonata al mio vestito. Ho ricevuto in dono dei gioielli veri, tutti sanno che i gioielli valgono più dei fiori. Non danzerò questa sera con uno Studente".

Il povero Studente gridò alla fanciulla e se ne andò arrabbiato gettando la rosa in mezzo alla strada. "Che cosa sciocca, che stupidaggine è l'Amore"




Il gigante egoista
di O. Wilde



Ogni pomeriggio, non appena uscivano dalla scuola, i bambini avevano l'abitudine di andare a giocare nel giardino del Gigante. Era un grande e bel giardino, con soffice erba verde e, qua e là sull'erba c'erano fiori belli come stelle, e c'erano dodici peschi che a primavera si aprivano in delicati fiori di rosa e perla, e in autunno davano frutti succosi.
Un giorno il Gigante tornò. Era stato in visita dal suo amico, l'orco di Cornovaglia, ed era rimasto da lui per sette anni. Quando arrivò vide i bambini che giocavano nel giardino.
"Che cosa fate qui?" gridò con voce molto burbera, e i bambini scapparono via.
"Il mio giardino è mio" disse il Gigante "chiunque può capirlo, e non permetterò a nessuno di giocarci, soltanto io posso". Così vi costruì un alto muro tutto attorno e non fece più entrare nessuno. Era un gigante davvero egoista.
I poveri bambini non avevano dove giocare.
Poi venne la Primavera, e in tutto il paese c'erano fiorellini e uccellini. Solo nel giardino del Gigante Egoista era ancora inverno. Agli uccelli non interessava cantare in quel giardino perché non c'erano bambini, e gli alberi si dimenticarono di fiorire. La Neve coprì l'erba con il suo grande manto bianco, e il Gelo dipinse tutti gli alberi d'argento. Poi invitarono il Vento del Nord a restare con loro, e lui venne. Poi venne la Grandine. Era vestita di grigio, e il suo respiro era come ghiaccio. "Non riesco a capire perché la Primavera tardi tanto" diceva il Gigante Egoista. Ma la Primavera non venne mai, e nemmeno l'Estate.

Una mattina il Gigante se ne stava sveglio nel letto quando udì una bella musica. Era un piccolo fanello che cantava fuori dalla sua finestra, ma era così tanto tempo che non sentiva cantare un uccello nel suo giardino, che questa gli sembrò la più bella musica del mondo. Allora la Grandine interruppe la danza sulla sua testa, e il Vento del Nord smise di ruggire, e un profumo delizioso lo raggiunse dalla finestra aperta. Che cosa vide? Attraverso un piccolo buco nel muro si erano intrufolati i bambini, e ora stavano seduti sui rami degli alberi. Su ogni ramo che poteva vedere c'era un bambino. E gli alberi erano talmente contenti di aver riavuto i bambini, che si erano coperti di fiori, e facevano ondeggiare delicatamente le loro braccia sul capo dei bambini. Gli uccelli volavano qua e là cinguettando di piacere, e i fiori guardavano all'insù attraverso l'erba verde e ridevano. Era una scena bellissima, solo in un angolo era ancora inverno. Era l'angolo più lontano del giardino, e lì se ne stava, in piedi, un ragazzino. Era così piccolo che non riusciva a raggiungere i rami dell'albero, e vi girava tutto intorno, piangendo amaramente. Il povero albero era coperto di ghiaccio e di neve, e il Vento del Nord soffiava e ruggiva su di lui. "Sali, bambino!" diceva l'Albero, e piegava i rami più in basso che poteva; ma il bambino era minuscolo.
E il cuore del Gigante si intenerì non appena guardò fuori. "Ora so perché la Primavera non voleva venire qui. - disse - Metterò quel bambinetto in cima all'albero, e poi abbatterò il muro, e il mio giardino diventerà un parco giochi per i bambini, per sempre". Era davvero molto dispiaciuto per quello che aveva fatto.
Così scese piano di sotto e aprì la porta senza far rumore, e uscì in giardino. Ma quando i bambini lo videro si spaventarono tanto che corsero via, e nel giardino tornò l'inverno. Solo il bambino più piccolo non fuggì, e il Gigante lo prese delicatamente in braccio, e lo posò sull'albero. E l'albero cominciò improvvisamente a fiorire, e gli uccelli vi si posarono e cantavano, e il bambino tese le braccia e le gettò al collo del Gigante, e lo baciò. E quando gli altri bambini videro che il Gigante non era più cattivo, tornarono indietro di corsa, e con loro tornò la Primavera. "Ora è il vostro giardino, bambini" disse il Gigante, e prese una grande ascia e abbatté il muro.
Tutto il giorno giocarono, e la sera andarono dal Gigante per salutarlo. "Ma dov'è il vostro piccolo compagno?" disse questi: "il bambino che ho messo sull'albero". Il Gigante gli voleva bene più che a tutti gli altri perché lo aveva baciato. "Non lo sappiamo" risposero i bambini "è andato via". "Dovete dirgli di venire qui domani" disse il Gigante. Ma i bambini dissero che non sapevano dove viveva e che non lo ave-vano mai visto prima. Il Gigante si sentì molto triste: "Come mi piacerebbe rivederlo!" ripeteva.

Passarono gli anni, e il Gigante divenne molto vecchio e debole. Non poteva più giocare, perciò si sedeva in una grande poltrona e guardava i bambini intenti a giocare, e ammirava il suo giardino. "Ho tanti bei fiori" diceva"ma i bambini sono i fiori più belli di tutti". Una mattina d'inverno guardò fuori dalla finestra mentre si vestiva. Ora non odiava l'Inverno, perché sapeva che era soltanto la Primavera addormentata, e che i fiori stavano riposando. D'improvviso si strofinò gli occhi dalla meraviglia e guardò e guardò. Era certo una vista meravigliosa. Nell'angolo più lontano del giardino c'era un albero coperto di bellissimi fiori bianchi. I suoi rami erano tutti d'oro, e pendevano frutti d'argento, e sotto c'era il ragazzino cui aveva voluto tanto bene. Il Gigante corse giù pieno di gioia, e uscì in giardino Si affrettò attraverso il prato, e si avvicinò al bambino. E quando giunse vicino al suo viso diventò rosso dall'ira e disse, "Chi ha osato ferirti?" Perché sulle palme delle mani del bambino c'erano i segni di due chiodi, e i segni di due chiodi erano sui suoi piedini. "Chi ha osato ferirti?" gridò il Gigante, "dimmelo, ch'io possa prendere la mia grande spada e ucciderlo" "No" rispose il bambino: "queste sono le ferite dell'Amore". "Chi sei tu?" disse il Gigante, e uno strano timore lo prese, e si inginocchiò davanti al bambino. E il bambino sorrise al Gigante, e gli disse, "Tu mi hai lasciato giocare una volta nel tuo giardino, oggi verrai con me nel mio giardino, che è il Paradiso". E quando i bambini corsero a giocare quel pomeriggio, trovarono il Gigante che giaceva morto sotto l'albero, tutto coperto di fiori bianchi.





Le favole di A. de Saint Exupéry

Il Piccolo Principe
di Antoine de Saint Exupéry

I
Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un libro sulle foreste primordiali, intitolato "Storie vissute della natura", vidi un magnifico disegno. Rappresentava un serpente boa nell'atto di inghiottire un animale. Eccovi la copia del disegno.
C'era scritto: "I boa ingoiano la loro preda tutta intera, senza masticarla. Dopo di che non riescono piu a muoversi e dormono durante i sei mesi che la digestione richiede".
Meditai a lungo sulle avventure della jungla. E a mia volta riuscii a tracciare il mio primo disegno. Il mio disegno numero uno. Era cosi:
Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava. Ma mi risposero: "Spaventare? Perché mai, uno dovrebbe essere spaventato da un cappello?" Il mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante. Affinché vedessero chiaramente che cos'era, disegnai l'interno del boa. Bisogna sempre spiegargliele le cose, ai grandi. Il mio disegno numero due si presentava cosi:
Questa volta mi risposero di lasciare da parte i boa, sia di fuori che di dentro, e di applicarmi invece alla geografia, alla storia, all'aritmetica e alla grammatica. Fu cosi che a sei anni io rinunziai a quella che avrebbe potuto essere la mia gloriosa carriera di pittore. Il fallimento del mio disegno numero uno e del mio disegno numero due mi aveva disanimato. I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta. Allora scelsi un'altra professione e imparai a pilotare gli aeroplani. Ho volato un po' sopra tutto il mondo: e veramente la geografia mi e stata molto utile. A colpo d'occhio posso distinguere la Cina dall'Arizona, e se uno si perde nella notte, questa sapienza e di grande aiuto.
Ho incontrato molte persone importanti nella mia vita, ho vissuto a lungo in mezzo ai grandi. Li ho conosciuti intimamente, li ho osservati proprio da vicino. Ma l'opinione che avevo di loro non e molto migliorata.
Quando ne incontravo uno che mi sembrava di mente aperta, tentavo l'esperimento del mio disegno numero uno, che ho sempre conservato. Cercavo di capire cosi se era veramente una persona comprensiva. Ma, chiunque fosse, uomo o donna, mi rispondeva: "É un cappello".
E allora non parlavo di boa, di foreste primitive, di stelle. Mi abbassavo al suo livello. Gli parlavo di bridge, di golf, di politica, di cravatte. E lui era tutto soddisfatto di avere incontrato un uomo tanto sensibile.

II
Cosi ho trascorso la mia vita solo, senza nessuno cui poter parlare, fino a sei anni fa quando ebbi un incidente col mio aeroplano, nel deserto del Sahara. Qualche cosa si era rotta nel motore, e siccome non avevo con me né un meccanico, né dei passeggeri, mi accinsi da solo a cercare di riparare il guasto.
Era una questione di vita o di morte, perché avevo acqua da bere soltanto per una settimana. La prima notte, dormii sulla sabbia, a mille miglia da qualsiasi abitazione umana. Ero piu isolato che un marinaio abbandonato in mezzo all'oceano, su una zattera, dopo un naufragio. Potete immaginare il mio stupore di essere svegliato all'alba da una strana vocetta: "Mi disegni, per favore, una pecora?"
"Cosa?"
"Disegnami una pecora".
Balzai in piedi come fossi stato colpito da un fulmine. Mi strofinai gli occhi piu volte guardandomi attentamente intorno. E vidi una straordinaria personcina che mi stava esaminando con grande serieta. Qui potete vedere il miglior ritratto che riuscii a fare di lui, piu tardi. Ma il mio disegno e molto meno affascinante del modello.
La colpa non e mia, pero. Con lo scoraggiamento che hanno dai i grandi, quando avevo sei anni, alla mia carriera di pittore, non ho mai imparato a disegnare altro ce serpenti boa dal di fuori o serpenti boa dal di dentro.
Ora guardavo fisso l'improvvisa apparizione con gli occhi fuori dall'orbita per lo stupore. Dovete pensare che mi trovavo a mille miglia da una qualsiasi regione abitata, eppure il mio ometto non sembrava smarrito in mezzo alle sabbie, né tramortito per la fatica, o per la fame, o per la sete, o per la paura. Niente di lui mi fava l'impressione di un bambino sperduto nel deserto, a mille miglia da qualsiasi abitazione umana. Quando finalmente potei parlare gli domandai: "Ma che cosa fai qui?"
Come tutta risposta, egli ripeté lentamente come si trattasse di cosa di molta importanza:
"Per piacere, disegnami una pecora! "
Quando un mistero e cosi sovraccarico, non si osa disubbidire. Per assurdo che mi sembrasse, a mille miglia da ogni abitazione umana, e in pericolo di morte, tirai fuori dalla tasca un foglietto di carta e la penna stilografica. Ma poi ricordai che i miei studi si erano concentrati sulla geografia, sulla storia, sull'aritmetica e sulla grammatica e gli dissi, un po' di malumore, che non sapevo disegnare. Mi rispose: "Non importa. Disegnami una pecora! "Non avevo mai disegnato una pecora e allora feci per lui uno di quei due disegni che avevo fatto tante volte: quello del boa da di fuori; e fui sorpreso di sentirmi rispondere:"No, no, no! Non voglio l'elefante dentro al boa. Il boa e molto pericoloso e l'elefante molto ingombrante. Dove vivo io tutto e molto piccolo. Ho bisogno di una pecora: disegnami una pecora".
Feci il disegno.
Lo guardo attentamente, e poi disse: "No! Questa pecora e malaticcia. Fammene un'altra".
Feci un altro disegno.
Il mio amico mi sorrise gentilmente, con indulgenza. "Lo puoi vedere da te", disse, "che questa non e una pecora. E un ariete. Ha le corna". Rifeci il disegno una terza volta, ma fu rifiutato come i tre precedenti."Questa e troppo vecchia. Voglio una pecora che possa vivere a lungo".
Questa volta la mia pazienza era esaurita, avevo fretta di rimettere a posto il mio motore. Buttai giu un quarto disegno. E tirai fuori questa spiegazione: "Questa e soltanto la sua cassetta. La pecora che volevi sta dentro". Fui molto sorpreso di vedere il viso del mio piccolo giudice illuminarsi:

"Questo e proprio quello che volevo. Pensi che questa pecora dovra avere una gran quantita d'erba?"
"Perché?"
"Perché dove vivo io, tutto e molto piccolo!"
"Ci sara certamente abbastanza erba per lei, e molto piccola la pecora che ti ho data".
Si chino sul disegno:
"Non cosi piccola che - oh guarda! - si e messa a dormire…
"E fu cosi che feci la conoscenza del piccolo principe.

III

Ci misi molto prima di capire da dove venisse. Il piccolo principe, che mi faceva una domanda dopo l'altra, parava che non sentisse mai le mie.
Sono state le parole dette per caso, che poco a poco, mi hanno rivelato tutto. Cosi, quando vide per la prima volta il mio aeroplano (non lo disegnero perché sarebbe troppo complicato per me), mi domando:
"Che cos'e questa cosa?"
"Non e una cosa… vola. E un aeroplano. E il mio aeroplano".
Ero molto fiero di fargli sapere che volavo.
Allora grido: "Come? Sei caduto dal cielo!"
"Si", risposi modestamente.
"Ah! Questa e buffa!"
E il piccolo principe scoppio in una bella risata che mi irrito. Voglio che le mie disgrazie siano prese sul serio. Poi riprese:
"Allora anche tu vieni dal cielo! Di quale pianeta sei?"
Intravidi una luce, nel mistero della sua presenza, e lo interrogai bruscamente:
"Tu vieni dunque da un altro pianeta?"
Ma non mi rispose. Scrollo gentilmente il capo osservando l'aeroplano.
"Certo che su quello non puoi veniere da molto lontano!"
e si immerse in una lunga meditazione. Poi, tirando fuori dalla tasca la mia pecora, sprofondo nella contemplzione del suo tesoro.
Voi potete ene immaginare come io fossi incuriosito da quell mezza confidenza su "gli altri pianeti". Cercai dunque di tirargli fuori qualche altra cosa:
"Da dove vieni, ometto? Dov'e la tua casa? Dove vuoi portare la mia pecora?"
Mi rispose dopo un silenzio meditativo: "Quello che c'e di buono, e che la cassetta che mi hai dato, le servira da casa per la notte".
"Certo. E se sei buono ti daro pure una corda per legare la pecora durante il giorno. E un paletto"
La mia proposta scandalizzo il piccolo principe.
"Legarla? Che buffa idea!"
"Ma se non la leghi andra in giro e si perdera… "
Il mio amico scoppio in una nuova risata:
"Ma dove vuoi che vada!"
"Dappertutto. Dritto davanti a sé!"
E il piccolo principe mi rispose gravemente:
"Non importa, e talmente piccolo da me!"
E con un po' di malinconia, forse, aggiunse:
"Dritto davanti a sé non si puo andare molto lontano!"
IV

Avevo cosi saputo una seconda cosa molto importante! Che il suo pianeta nativo era poco piu grande di una casa. Tuttavia questo non poteva stupirmi molto. Sapevo benissimo che, oltre ai grandi pianeti come la Terra, Giove, Marte, Venere ai quali si e dato un nome, ce ne sono centinaia ancora che sono a volte cosi piccoli che si arriva si e no a vederli col telescopio.
Quando un astronomo scopre uno di questi, gli da per nome un numero. Lo chiama per esempio: "l'asteroide 3251".
Ho serie ragioni per credere che il pianeta da dove veniva il piccolo principe e l'asteroide B 612.
Questo asteroide e stato visto una sola volta al telescopio da un astronomo turco. Aveva fatto allora una grande dimostrazione della sua scoperta a un Congresso Internazionale d'Astronomia. Ma in costume com'era, nessuno lo aveva preso sul serio. I grandi sono fati cosi.
Fortunatamente per la reputazione dell'asteroide B 612 un dittatore turco impose al suo popolo, sotto pena di morte, di vestire all'europea.
L'astronomo rifece la sua dimostrazione nel 1920, con un abito molto elegante. E questa volta tutto il mondo fu con lui.
Se vi ho raccontato tanti particolari sull'asteroide B 612 e se vi ho rivelato il suo numero, e proprio per i grandi che amano le cifre. Quando voi gli parlate di un nuovo amico, mai si interessano alle cose essenziali. Non si domandano mai: "Qual e il tono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Fa collezione di farfalle?".
Ma vi domandano: "Che eta ha? Quanti fratelli? Quanto pesa? Quanto guadagna suo padre?" Allora soltanto credono di conoscerlo. Se voi dite ai grandi:
"Ho visto una bella casa di mattoni rosa, con dei gerani alle finestre, e dei colombi sul tetto", loro non arrivano a immaginarsela. Bisogna dire: "Ho visto una casa di centomila lire", e allora esclamano: "Com'e bella".
Cosi se voi gli dite: "La prova che il piccolo principe e esistito, sta nel fatto che era bellissimo, che rideva e che voleva una pecora. Quando uno vuole una pecora e la prova che esiste".
Be' , loro alzeranno le spalle, e vi tratteranno come un bambino. Ma se voi invece gli dite: "Il pianeta da dove veniva e l'asteroide B 612" allora ne sono subito convinti e vi lasciano in pace con le domande. Sono fatti cosi. Non c'e da prendersela. I bambini devono essere indulgenti coi grandi.
Ma certo, noi che comprendiamo la vita, noi ce ne infischiamo dei numeri! Mi sarebbe piaciuto cominciare questo racconto come una storia di fate. Mi sarebbe piaciuto dire:
"C'era una volta un piccolo principe che viveva su di un pineta poco piu grande di lui e aveva bisogno di un amico…"
Per coloro che comprendono la vita, sarebbe stato molto piu vero. Perché non mi piace che si legga il mio libro alla leggera. E un grande dispiacere per me confidare questi ricordi. Sono gia sei anni che il mio amico se ne e andato con la sua pecora e io cerco di descriverlo per non dimenticarlo. E triste dimenticare un amico. E posso anch'io diventare come i grandi che non s'interessano piu che di cifre. Ed e anche per questo che ho comperato una scatola coi colori e con le matite. Non e facile rimettersi al disegno alla mia eta quando non si sono fatti altri tentativi che quello di un serpente boa dal di fuori e quello di un serpente boa dal di dentro, e all'eta di sei anni. Mi studiero di fare ritratti somigliantissimi. Ma non sono affatto sicuro di riuscirvi. Un disegno va bene, ma l'altro non assomiglia per niente. Mi sbaglio anche sulla statura. Qui il piccolo principe e troppo grande. La e troppo piccolo. Esito persino sul colore del suo vestito. E allora tento e tentenno, bene o male. E finiro per sbagliarmi su certi particolari piu importanti. Ma questo bisogna perdonarmelo. Il mio amico non mi dava mai delle spiegazioni. Forse credeva che fossi come lui. Io, sfortunatamente, no sapevo vedere le pecore attraverso le casse. Puo darsi che io sia un po' come i grandi. Devo essere invecchiato.
V

Ogni giorno imparavo qualche cosa sul pianeta, sulla partenza sul viaggio. Veniva da sé, per qualche riflessione.
Fu cosi che al terzo giorno conobbi il draa dei baobab.
Anche questa volta fu merito della pecora, perché bruscamete il piccolo principe mi interrogo, come preso da un grave dubbio:
"E proprio vero che le pecore mangiano gli arbusti?"
"Si, vero".
"Ah! Sono contento".
Non capii perché era cosi importante che le pecore mangiassero gli arbusti. Ma il piccolo principe continuo:
"Allora mangiano anche i baobab?"
Feci osserare al piccolo principe che i baobab non sono degli arbusti, ma degli alberi grandi come chiese e che se anche avesse portato con sé una mandria di elefanti, non sarebbe venuto a capo di un solo baobab.
L'idea della mandria di elefanti fece ridere il piccolo principe:
"Bisognerebbe metterli gli uni su gli altri…"
Ma osservo saggiamente:
"I baobab prima di diventare grandi cominciano con l'essere piccoli".
"E esatto! Ma perché vuoi che le tue pecore mangino i piccoli baobab?"
"Be' ! Si capisce", mi rispose come se si trattasse di una cosa evidente. E mi ci volle un grande sforzo d'intelligenza per capire da solo questo problema.
Infatti, sul pianeta del piccolo principe ci sono, come su tutti i pianeti, le erbe buone e quelle cattive. Di conseguenza: dei buoni semi di erbe buone e dei cattivi semi di erbe cattive. Ma i semi sonoinvisibili. Dormono nel segreto della terra fino a che all. uno o all. altro pigli la fantasia di risvegliarsi. Allora si stira, e sospinge da principio timidametne verso il sole un bellissimo ramoscello inoffensivo. Se si tratta di un ramoscello di ravanello o di rosaio, si puo lasciarlo spuntare come vuole.
Ma se si tratta di una pianta cattiva, bisogna strapparla subito, appena la si e riconosciuta. C'erano dei terribili semi sul pianeta del piccolo principe: erano i semi dei baobab. Il suolo ne era infestato. Ora, un baobab, se si arria troppo tardi, non si riesce piu a sbarazzarsene. Ingombra tutto il pianeta. Lo trapassa con le sue ragici. E se il pianeta e troppo piccolo e i baobab troppo numerosi, lo fanno scoppiare.
"E una questione di disciplina", mi diceva piu tardi il piccolo principe. "Quando si ha finito di lavarsi al mattino, bisogna fare con cura la pulizia del pianeta. Bisogna costringersi regolarmente a strappare i baobab apena li si distingue dai rosai ai quali assomigliano molto quanod sono piccoli. E un lavoro molto noioso, ma facile".
E un giorno mi consiglio di fare un bel disegno per far entrare bene questa idea nella testa dei bambini del mio paese.
"Se un giorno viaggeranno", mi diceva, "questo consiglio gli potra servire. Qualche volta e senza inconvenienti rimettere a piu tardi il proprio
lavoro. Ma se si tratta dei baobab e sempre una catastrofe. Ho conosciuto un pianeta abitato da un pigro. Aveva trascurato tre arbusti…"
E sull'indicazione del piccolo principe ho disegnato quel pianeta. Non mi piace prendere il tono moralista. Ma il pericolo dei baobab e cosi poco conosciuto, e i rischi che correrebbe chi si smarrisse su un asteroide, cosi gravi, che una volta tanto ho fatto eccezione.
E dico: "Bambini! Fate attenzione ai baobab!" E per avvertire i miei amici di un pericolo che hanno sempre sfiorato, come me stesso, senza conoscerlo, ho tanto lavorato a questo disegno. La lezione che davo, giustificava la fatica. Voi mi domanderete forse: Perché non ci sono in questo libro altri disegni altrettanto grandiosi come quello dei baobab? La risposta e molto semplice: Ho cercato di farne uno, non ci sono riuscito. Quando ho disegnato i baobab ero animato da sentimento dell'urgenza.
VI
Oh piccolo principe, ho capito a poco a poco la tua piccola vita malinconica. Per molto tempo tu non avevi avuto per distrazione che la dolcezza dei tramonti. Ho appreso questo nuovo particolare il quarto giorno, al mattino, quando mi hai detto:
"Mi piacciono tanto i tramonti. Andiamo a vedere un tramonto…"
"Ma bisogna spettare…"
"Aspettare che?"
"Che il sole tramonti…"
Da prima hai avuto un'aria molto sorpresa, e poi hai riso di te stesso e mi hai detto:
"Mi credo sempre a casa mia!"
Infatti. Quando agli Stati Uniti e mezzogiorno tutto il mondo sa che il sole tramonta sulla Francia. Basterebbe poter andare in Francia in un minuto per assistere al tramonto. Sfortunatamente la Francia e troppo lontana. Ma sul tuo piccolo pianeta ti bastava spostare la tua sedia di qualche passo. E guardavi il crepuscolo tutte le volte che lo volevi… "Un giorno ho visto il sole tramontare quarantatré volte!"
E piu tardi hai aggiunto:
"Sai.. quando si e molto tristi si amano i tramonti…"
"Il giorno delle quarantatré volte eri tanto triste?" Ma il piccolo principe non rispose.

VII

Al quinto giorno, sempre grazie alla pecora, mi fu svelato questo segreto della vita del piccolo principe. Mi domando bruscamente, senza preamboli, come il frutto di un problema meditato a lungo in silenzi:
"Una pecora se mangia gli arbusti, mangia anche i fiori?"
"Una pecora mangia tutto quello che trova".
"Anche i fiori che hanno le spine?"
"Si. Anche i fiori che hanno le spine".
"Ma allora le spine a che cosa servono?"
Non lo sapevo. Ero in quel momento occupatissimo a cercare di svitare un bullone troppo stretto del mio motore. Ero preoccupato perché la mia panne cominciava ad apparirmi molto grave e l. acqua da bere che si consumava mi faceva temere il peggio.
"Le spine a che cosa servono?"
il piccolo principe non rinunciava mai a una domanda che aveva fatta. Ero irritato per il mio bullone e risposi a casaccio:
"Le spine non servono a niente, e pura cattiveria da parte dei fiori"
"Oh!"
Ma dopo un silenzio mi getto in viso con una specie di rancore:
"Non ti credo! I fiori sono deboli. Sono ingenui. Si rassicurano come possono. Sei credono terribile con le loro spine& "
Non risposi. In quel momento mi dicevo:
"Se questo bullone resiste ancora, lo faro saltare con un colpo di martello". Il piccolo principe disturbo di nuovo le mie riflessioni.
"E tu credi, tu, che i fiori& "
"Ma no! Ma no! Non credo niente! Ho risposto una cosa qualsiasi. Mi occupo di cose serie, io!"
Mi guardo stupefatto.
"Di cose serie!"
Mi vedeva col martello in mano, le dita nere di sugna, chinato su un oggetto che gli sembrava molto brutto.
"Parli come i grandi!"
Ne ebbi un po. vergogna. Ma, senza pieta, aggiunse:
"Tu confondi tutto& tu mescoli tutto!"
Era veramente irritato. Scuoteva al vento i suoi capelli dorati.
"Io conosco un pianeta su cui c. e un signor Chermisi. Non ha mai respirato un fiore. Non ha mai guardato una stella. Non ha mai voluto bene a nessuno. Non fa altro che addizioni. E tutto il giorno ripete come te: "Io sono un uomo serio! Io sono un uomo serio!" e si gonfia di orgoglio. Ma non e un uomo, e un fungo!"
"Che cosa?"
"Un fungo!"
Il piccolo principe adesso era bianco di collera.
"Da migliaia di anni i fiori fabbricano le spine. Da migliaia di anni le pecore mangiano tuttavia i fiori. E non e una cosa seria capire perché i fiori si danno tanto da fare per fabbricarsi delle spine che non servono a niente? Non e importante la guerra fra le pecore e i fiori? Non e piu serio e piu importante delle addizioni di un grosso signore rosso? E se io conosco un fiore unico al mondo, che non esiste da nessuna parte, altro che nel mio pianeta, e che una piccola pecora puo distruggere di colpo, cosi un mattino, senza rendersi conto di quello che fa, non e importante questo!"
Arrossi, poi riprese:
"Se qualcuno ama un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni di stelle, questo basta a farlo felice quando lo guarda. E lui si dice: "Il mio fiore e la in qualche luogo." Ma se la pecora mangia il fiore, e come se per lui tutto a un tratto, tutte le stelle si spegnessero! E non e importante questo!"
Non poté proseguire. Scoppio bruscamente in singhiozzi. Era caduta la note. Avevo abbandonato i miei utensili. Me ne infischiavo del mio martello, del mio bullone, della sete e della morte. Su di una stella, un pineta, il mio, la Terra, c'era un piccolo principe da consolare! Lo presi in braccio. Lo cullai. Gli dicevo: "Il fiore che tu ami non e in pericolo… Disegnero una museruola per la tua pecora…e una corazza per il tuo fiore…Io…"
Non sapevo bene che cosa dirgli. Mi sentivo molto maldestro. Non sapevo come toccarlo, come raggiungerlo… Il paese delle lacrime e cosi misterioso.





VIII

Imparai ben presto a conoscere meglio questo fiore. C'erano sempre stati sul pianeta del piccolo principe dei fiori molto semplici, ornati di una sola raggiera di petali, che non tenevano posto e non disturbavano nessuno. Apparivano un mattino nell'erba e si spegnevano la sera. Ma questo era spuntato un giorno, da un seme venuto chissa da dove, e il piccolo principe aveva sorvegliato da vicino questo ramoscello che non somigliava a nessun altro ramoscello. Poteva essere una nuova specie di baobab. Ma l'arbusto cesso presto di crescere e comincio a preparare un fiore. Il piccolo principe, che assisteva alla formazione di un bocciolo enorme, sentiva che ne sarebbe uscita un'apparizione miracolosa, ma il fiore non smetteva piu di prepararsi ad essere bello, al riparo della sua camera verde. Sceglieva con cura i suoi colori, si vestiva lentamente, aggiustava i suoi petali ad uno ad uno. Non voleva uscire sgualcito come un papavero. Non voleva apparire che nel pieno splendore della sua bellezza. Eh, si, c'era una gran civetteria in tutto questo! La sua misteriosa toeletta era durata giorni e giorni. E poi, ecco che un mattino, proprio all'ora del levar del sole, si era mostrato.
E lui, che aveva lavorato con tanta precisione, disse sbadigliando:
"Ah! Mi sveglio ora. Ti chiedo scusa& sono ancora tutto spettinato…"
Il piccolo principe allora non poté frenare la sua ammirazione:
"Come sei bello!"
"Vero", disse dolcemente il fiore, "e sono nato insieme al sole…"
Il piccolo principe indovino che non era molto modesto, ma era cosi commovente!
"Credo che sia l'ora del caffe e latte", aveva soggiunto, "vorresti pensare a me…"
E il piccolo principe, tutto confuso, ando a cercare un innaffiatoio di acqua fresca e servi al fiore la sua colazione.
Cosi l'aveva ben presto tormentato con la sua vanita un poco ombrosa. Per esempio, un giorno, parlando delle sue quattro spine, gli aveva detto:
"Possono venire le tigri, con i loro artigli!"
"Non ci sono tigri sul mio pianeta", aveva obiettato il piccolo principe, "e poi le tigri non mangiano l'erba".
"Io non sono un'erba", aveva dolcemente riposto il fiore.
"Scusami…"
"Non ho paura delle tigri, ma ho orrore delle correnti d. aria& Non avresti per caso un paravento?"
"Orrore delle correnti d'aria?"
"E un po' grave per una pianta", aveva osservato il piccolo principe. "E molto complicato questo fiore…"
"Alla sera mi metterai al riparo sotto a una campana di vetro. Fa molto freddo qui da te… Non e una sistemazione che mi soddisfi. Da dove vengo io… "
Ma si era interrotto. Era venuto sotto forma di seme. Non poteva conoscere nulla degli altri mondi. Umiliato di essersi lasciato sorprendere a dire una bugia cosi ingenua, aveva tossito due o tre volte, per metter il piccolo principe dalla parte del torto…
"E questo paravento?… "
"Andavo a cercarlo, ma tu mi parlavi!"
Allora aveva forzato la sua tosse per fargli venire dei rimorsi. Cosi il piccolo principe, nonostante tutta la buona volonta del suo amore, aveva cominciato a dubitare di lui. Aveva preso sul serio delle parole senza importanza che l'avevano reso infelice.


IX

Io credo che egli approfitto, per venirsene via, di una migrazione di uccelli selvatici. Il mattino della partenza mise bene in ordine il suo pianeta. Spazzo accuratamente il camino dei suoi vulcani in attivita. Possedeva due vulcani in attivita.
Ed era molto comodo per far scaldare la colazione del mattino. E possedeva anche un vulcano spento. Ma, come lui diceva, "non si sa mai" e cosi spazzo anche il camino del vulcano spento. Se i camini sono ben puliti, bruciano piano piano, regolarmente, senza eruzioni. Le eruzioni vulcaniche sono come gli scoppi nei caminetti. E' evidente che sulla nostra terra noi siamo troppo piccoli per poter spazzare il camino dei nostri vulcani ed e per questo che ci danno tanti guai.
Il piccolo principe strappo anche con una certa malinconia gli ultimi germogli di baobab. Credeva di non ritornare piu. Ma tutti quei lavori consueti gli sembravano, quel mattino, estremamente dolci. E quando innaffio per l'ultima volta il suo fiore, e si preparo a metterlo al riparo sotto la campana di vetro, scopri che aveva una gran voglia di piangere.
"Addio", disse al fiore.
Ma il fiore non rispose.
"Addio", ripeté.
Il fiore tossi. Ma non era perché fosse raffreddato.
"Sono stato uno sciocco", disse finalmente, "scusami, e cerca di essere felice".
Fu sorpreso dalla mancanza di rimproveri. Ne rimase sconcertato, con la campana di vetro per aria. Non capiva quella calma dolcezza.
"Ma si, ti voglio bene", disse il fiore, "e tu non l'hai saputo per colpa mia. Questo non ha importanza, ma sei stato sciocco quanto me. Cerca di essere felice. Lascia questa campana di vetro, non la voglio piu".
"Ma il vento"
"Non sono cosi raffreddato. L'aria fresca della notte mi fara bene. Sono un fiore".
"Ma le bestie"
"Devo pur sopportare qualche bruco se voglio conoscere le farfalle, sembra che siano cosi belle. Se no chi verra a farmi visita? Tu sarai lontano e delle grosse bestie non ho paura. Ho i miei artigli".
E mostrava ingenuamente le sue quattro spine. Poi continuo:
"Non indugiare cosi, e irritante. Hai deciso di partire e allora vattene".
Perché non voleva che io lo vedessi piangere. Era un fiore cosi orgoglioso.




X

Il piccolo principe si trovava nella regione degli asteroidi 325, 326, 327, 328, 329 e 330. Comincio a visitarli per cercare un’occupazione e per istruirsi.
Il primo asteroide era abitato da un re. Il re vestito di porpora e d’ermellino, sedeva su un trono molto semplice e nello stesso tempo maestoso.
"Ah! Ecco un suddito", esclamo il re appena vide il piccolo principe.
E il piccolo principe si domando:
"Come puoi conoscermi se non mi ha mai visto?"
Non sapeva che per i re il mondo e molto semplificato. Tutti gli uomini sono dei sudditi.
"Avvicinani che ti veda meglio", gli disse il re che era molto fiero di essere finalmente re per qualcuno.
Il piccolo principe cerco con gli occhi dove potresi sedere, ma il pianeta era tutto occupato dal magnifico manto di ermellino. Dovette rimanere in piedi, ma era tanto stanco che sbadiglio.
"E contro all’etichetta sbadigliare alla presenza di un re", gli disse il monarca, "te lo proibisco".
"Non posso farne a meno", rispose tutto confuso il piccolo principe. "Ho fatto un lungo viaggi e non ho dormito…"
"Allora", gli disse il re, "ti ordino di sbadiglaire. Sono anni che non vedo qualcuno che sbadirglia, e gli sbadigi sono una curiosita per me. Avanti! Sbadiglia ancora. E un ordine".
"Mi avete intimidito… non posso piu", disse il piccolo principe arrossendo.
"Hum! Hum!" rispose il re. "Allora io… io ti ordino di sbadigliare un po’ e un po’…"
Borbotto qualche cosa e sembro seccato. Perché il re teneva assolutamente a che la sua autorita fosse rispettata. Non tollerava la disubbidienza. Era un monarca assoluto. Ma siccome era molto buono, dava degli ordini ragionevoli.
"Se ordinassi", diceva abitualmente, "se ordinassi a un generale di trasformarsi in un uccello marino, e se il generale non ubbidisse, non sarebbe colpa del generale. Sarebbe colpa mia".
"posso sedermi?" s’informo rimidamente il piccolo principe.
"Ti ordino di sederti", gli rispose il re che ritiro maestosamente una falda del suo mantello di ermellino.
Il piccolo principe era mlto stupido. Il pianeta era piccolissimo e allora su che cosa il re poteva regnare?
"Sire", gli disse, "scusatemi se vi interrogo…"
"Ti ordino di interrogarmi", si afrretto a rispondere il re.
"Sire, su che cosa regnate?"
"Su tutto", rispose il re con grande semplicita.
"Su tutto?"
Il re con un gesto discreto indico il suo pianeta, gli altri pianeti, e le stelle.
"Su tutto questo?" domando il piccolo principe.
"Su tutto questo…" rispose il re.
Perché non era solamente un monarca assoluto, era un monarca universale.
"E le stelle vi obbediscono?"
"Certamente", gli disse il re. "Mi obbediscono immediatamente. Non tollero l’indisciplina".
Un tale potere meraviglio il piccolo principe. Se l’avesse avuto lui, avrebbe potuto assistere non a quarantatré, ma settantadue, o anche a cento, a duecento tramonti nella stessa giornata, senza dover spostare mai la sua serdia! E sentendosi un po’ triste al pensiero dels uo piccolo pianeta abbandonato, si azzardo a sollecitare una grazia al re:
"Vorrei tatno vedere u tramonto… Fatemi questo piacere… Ordinate al sole di tramontare…"
"Se ordinassi a un generale di volare da un fiore all’altro come una farfalla, o di scrivere una tragedia, o di trasformarsi in un uccello marino; e se il generale non eseguisse l’ordine ricevuto, chi avrebe torto, lui o io?"
"L’avreste voi", disse con fermezza il piccolo principe.
"Esatto. Bisogna esigere da ciascuno quellche che ciascuno puo dare", continuo il re. "L’autorita riposa, prima id tutto, sulla ragione. Se tu ordini al tuo popolo id andare a gettarsi in mare, fara la rivoluzione. Ho il idritto di esigere l’ubbidienza perché i miei ordini sono ragionevoli".
"E allora il mio tramonto?" ricordo il piccolo principe che non si dimenticava mai di una domanda una volta che l’aveva fatta.
"L’avrai il tuo tramonto, lo esigero, ma, nella mia sapienza di governo, aspettero che le condizioni siano favorevoli".
"E quando saranno?" s’informo il piccolo principe.
"Hem! Hem!" gli risose il re che intanto consultava un grosso calendario, "hem! hem! sara verso, vers, sara questa sera verso le sette e quaranta! E vedrai come saro ubbidito e puntino".
Il piccolo principe sbadiglio. Rimpiangeva il suo tramonto mancato. E poi incominviava ad annoiarsi.
"Non ho pu niente da fare qui", disse al re. "Me ne vado".
"Non partire", rispose il re che era tanto fiero di avere un suddito, "non partire, ti faro ministro!"
"Ministro di che?"
"Di.. della giustizia!"
"Ma se non c’e nussuno da giudicare?"
"Non si sa mai", gli disse il re. "Non ho ancora fatto il giro del mio regno. Sono molto vecchio, non c’e posto per una carroza e mi stanco a camminare".
"Oh! Ma ho gia visto io", disse il piccolo principe sporgendosi per dare ancora un’occhiata sull’altra parte del pianeta. "Neppure laggiu c’e qualcuno".
"Giudicerai te stesso", gli rispose il re. "E la cosa piu difficile. E molto piu difficile giudicare se stessi che gli altri. Se riesci a giudicare bene e segno che sei veramente un saggio".
"Io", disse il piccolo principe, "io posso giudicarmi ovunque. Non ho bisogno di abitare qui".
"Hem! hem!" disse il re. "Credo ceh da qualche parte sul mio pianeta ci sia un vecchio topo. Lo sento durante la notte. Potrai giudicare questo vecchio topo. Lo condannerai a morte di tanto in tanto. Cosi la sua vita dipendera dalla tua giustizia. Ma lo grazierai ogni volta per economizzarlo. Non ce n’e che uno".
"Non mi piace condannare a morte", rispose il piccolo principe, "preferisco andarmene".
"No", disse il re.
Ma il piccolo principe che aveva finiti i suoi preparativi di partenza, non voleva dare un dolore al vecchio monarca:
"Se Vostra Maesta desidera esere ubbidito puntualmente, puo darmi un ordine ragionevole. Potrebbe ordinarmi, per esempio, di partir prima che sia passato un minuto. Mi pare che le condizioni siano favorevoli…"
E siccome il re non rispondeva, il piccolo principe esito un momento e poi con un sospiro se ne parti.
"Ti nomino mio ambasciatore", si affretto a gridargli appresso il re.
Aveva un’aria di grande autorita.
Sono ben strani i grandi, si disse il piccolo principe durante il viaggio.

XI

Il secondo pianeta era abitato da un vanitoso.
"Ah! Ah! Ecco la visita di un ammiratore", grido da lontano in vanitoso appena scorse il piccolo principe.
Per i vanitosi tutti gli altri uomini sono degli ammiratori.
"Buon giorno", disse il piccolo principe, "che buffo cappello avete!"
"E per salutare", gli rispose il vanitoso. "E per salutare quando mi acclamano, ma sfortunatamente nonpassa mai nesusno da queste parti".
"Ah si?" disse il piccolo principe che non capiva.
"Batti le mani l’una contro l’altra", consiglio percio il vanitoso.
Il piccolo principe batté le mani l’una contro l’altra e il vanitoso saluto con modestia sollevando il cappello.
"E piu divertente che la visita al re", si disse il piccolo principe, e ricomincio a battere le mani l’una contro l’altra. Il vanitoso ricomincio a salutare sollevando il cappello.
Dopo cinque minuti di questo esercizio il piccolo principe si stanco della monotonia de gioco:
"E che cosa bisogna fare", domando, "perché il cappello caschi?"
Ma il vanitoso con l’intese. I vanitosi non sentono altro che le lodi.
"Mi ammiri molto, veramente?" domando al piccolo principe.
"Che cosa vuol dire ammirare?"
"Ammirare vuol dire riconoscere che io sono l’uomo piu bello, piu elegante, piu ricco e piu intelligente di tutto il pianeta".
"Ma tu sei solo sul tuo pianeta!"
"Fammi questo piacere. Ammirami lo stesso!"
"Ti ammiro", disse il piccolo principe, alzando un poco le spalle, "ma tu che te ne fai?"
E il piccolo principe se ne ando.
Decisametne i grandi sono ben bizzarri, diceva con semplicita a se stesso, durante il suo viaggio.

XII

Il pianeta appresso era abitato da un ubriacone. Questa visita fu molto breve, ma immerse il pciccolo principe inuna grande malinconia.
"Che cosa fai?" chiese all’ubriacone che stava in silenzio davanti a uan collezione di bottiglie buote e a ua collezioe di bottiglie piene.
"Bevo", rispose, in tono lugubre, l’ubriacone.
"Perché bevi?" domando il piccolo principe.
"Per dimenticare", rispose l’ubriacone.
"Per dimenticare ce cosa?" s’informo il piccolo principe che cominciava gia a compingerlo.
"Per dimenticare che ho vergogna", confesso l’ubriacone abbassando la testa.
"Vergogna di che?" insistette il piccolo principe che desiderava soccorrerlo.
"Vergogna di bere!" e l’ubriacone si chiuse in un silenzio definitivo.
Il piccolo principe se ne ando perplesso.
I grandi, decisamente, sono molto, molto bizzarri, si disse durante il viaggio.




XIII

Il quarto pianeta era abitato da un uomo d’affari. Questo uomo era cosi occupato che non alzo neppure la testa all’arrivo del piccolo principe.
"Buon giorno", gli disse questi. "La vostra sigaretta e spenta".
"Tre piu due fa cinque. Cinque piu sette: dodici. Dodici piu tre: quindici. Buon giorno. Quindici piu sette fa ventidue. Ventidue piu sei: ventotto. Non ho tempo per riaccenderla. Ouf! Dunque fa cinquecento e un milione seicento ventiduemila settecento trentuno".
"Cinquecento milioni di che?"
"Hem! Sei sempre li? Cinquecento e un milione di… non lo so piu. Ho talmetne da fare! Sono un uomo serio io, io, non mi diverto con delle frottole! Due piu cinque: sette…"
"Cinquecento e un milione di che?" ripeté il piccolo principe che mai aveva rinunciato a una domanda una volta che l’aveva espressa.
L’uomo d’affari alzo la testa:
"Da cinquantaquattro anni che abito in questo pianeta non sono stato disturbato che tre volte. La prima volta e stato ventidue anni fa, da una melolonta che era caduta chissa da dove. Feceva un rumore spaventoso e ho fatto quattro errori in una addizione. La seconda vota e stato undici anni fa per una crisi di reumatismi. Nonmi muovo mai, non ho il tempo di girandolare. Sono un uomo serio, io. La terza volta… eccolo! Dicevo dunque cinquecento e un milione".
"Milioni di che?"
l’uomo d’affari capi ceh non c’era speranza di pace.
"Milioni di quelle piccole cose che si vedono qualche volta nel cielo".
"Di mosche?"
"Ma no, di piccole cose che brillano".
"Di api?".
"Ma no. Di quelle piccole cose dorate che fanno fantasticare i poltroni. Ma sono un uomo serio, io! Non ho il tempo di fantasticare".
"Ah! Di stelle?"
"Eccoci. Di stelel".
"E che ne fai di cinquecento milioni di stelle?" milasettecentotrentuno. Sono un uomo serio io, sono un uomo preciso".
"E che te ne fai di queste stelle?"
"Che cosa me ne faccio?"
"Si".
"Niente. Le possiedo".
"Tu possiedi le stelel?"
"Si".
"Ma ho gia veduto un re che…"
"I re non possiedono. Ci regnano sopra. E molto diverso".
"E a che ti serve possedere le stelle?"
"Mi serve ad essere ricco".

"E a che ti serve essere ricco?"
"A comprare delel altre stelel, se qualcuno ne trova".
Questo qui, si dice il piccolo principe, ragiona un po’ come il mio ubriacone.
Ma pure domando ancora:
"Come si puo possedere le stelle?"
"Di chi sono?", rispose facendo stridere i denti l’uomo d’affri.
"Non lo so, di nessuno".
"Allora sono mie che vi ho pensato per il primo".
"E questo basta?"
"Certo. Quando trovi un diamante che non e di nesuno, e tuo. Quando trovi un’isola che non e di nessuno, e tua. Quando tu hai un’idea per primo, la fai brevettare, ed e tua. E io possiedo le stelle, perché mai nessuno prima di me si e sognato di possederle".
"Questo e vero", disseil piccolo principe.
"Che te ne fai?"
"Le amministro. Le conto e le riconto", disse l’uomo d’affari. "E una cosadifficile, ma io sono un uomo serio!"
il piccolo principe non era ancora soddisfatto, metterlo intorno al collo e prtarmelo via. Se possiedo un fiore, posso cogliere il mio fiore e portarlo con me. Ma tu non puoi cogliere le telle".
"No, ma posso depositarle alla banca".
"Che cosa vuol dire?"
"Vuol dire che scrivo su un pezzetto di carta il numero delel mie stelel e poi chiudo a chiave questo pezzetto di carta in un cassetto".
"Tutto qi?"
"E sufficiente".
E divertente, penso il piccolo principe, e abbastanza poetico. Ma non e molto serio.
Il piccolo principe aveva sulle cose serie delel idee motlo diverse da quelle dei grandi.
"Io", disse il piccolo principe, "possiedo un fiore che innaggio tutti i giorni. Possiedo tre vulcani dei quali spazzo il camino tutte le settimane. Perché spazzo il camino anche di quello spento. Non si sa mai. E utile ai miei vulcani, ed e utile alle stelle…"
L’uomo d’affari apri la bocca ma non trovo niente da risopndere e il piccolo principe se ne ando.
Decisamente i grandi sono proprio straordinari, si disse semplicemente durante il viaggio.



XIV

Il quinto pianeta era molto strano. Vi era appena il posto per sistemare un lampione e l’uomo che l’accendeva. Il piccolo principe non riusciva a spiegarsi a che potessero servire, spersi nel cielo, su di un pianeta senza case, senza abitanti, un lampione e il lampionaio.
Eppure si disse:
"Forse quest’uomo e veramente assurdo. Pero e meno assurdo del re, del vanitoso, dell’uomo d’affari e dell’ubriacone. Almeno il suo lavoro ha un senso. Quando accende il suo lampione, e come se facesse nascere una stella in piu, o un fiore. Quando le spegne addormenta il fiore o la stella. E una bellissima occupazione, ed e veramente utile, perché e bella".
Salendo sul pianeta saluto rispettosamente l’uomo:
"Buon giorno. Perché spegni il tuo lampione?"
"E la consegna", rispose il lampionaio. "Buon giorno".
"Che cos’e la consegna?"
"E di spegnere il mio lampione. Buona sera".
E lo riaccese.
"E adesso perché lo riaccendi?"
"E la consegna".
"Non capisco", disse il piccolo principe.
"Non c’e nulla da capire", disse l’uomo, "la consegna e la consegna. Buon giorno". E spense il lampione.
Poi si asciugo la fronte con un fazzoletto a quadri rossi.
"Faccio un mestiere terribile. Una volta era ragionevole. Accendevo al mattino e spegnevo ala sera, e avevo il resto del giorno per riposarmi e il resto della notte per dormire…"
"E dopo di allora e cambiata la consegna?"
"La consegna non e cambiata", disse il lampionaio, "e proprio questo il dramma. Il pianeta di anno in anno ha girato sempre piu in fretta e la consegna non e stata cambiata!"
"Ebbene?" disse il piccolo principe.
"Ebbene, ora che fa un giro al minuto, non ho piu un secondo di riposo. Accendo e spengo una volta al minuto!"
"E divertente! I giorni da te durano un minuto!"
"Non e per nulla divertente", disse l’uomo. "Lo sai che stiamo parlando da un mese?"
"Da un mese?"
"Si. Trenta minuti: trenta giorni! Buona sera".
E riaccese il lampione.
Il piccolo principe lo guardo e senti improvvisamente di amare questo uomo che era cosi fedele ala sua consegna. Si ricordo dei tramonti che lui stesso una volta andava a cercare, spostando la sua sedia. E volle aiutare il suo amico:
"Sai… conosco un modo per riposarti quando vorrai…"
"Lo vorrei sempre", disse l’uomo.
Perché si puo essere nello stesso tempo fedeli e pigri.
E il piccolo principe continuo:
"Il tuo pianeta e cosi piccolo che in tre passi ne puoi fare i giro. Non ha che da camminare abbastanza lentamente per rimanere sempre al sole. Quando vorrai riposarti camminerai e il giorno durera finché tu vorrai".
"Non mi serve a molto", disse l’uomo. "Cio che desidero soprattutto nella via e dormire".
"Non hai fortuna", disse il piccolo principe.
"Non ho fortuna", rispose l’uomo. "Buon giorno".
E spense il suo lampadario.
Quest’uomo, si disse il piccolo principe, continuando il suo viaggio, quest’uomo sarebbe disprezzato da tutti gli altri, "E la consegna", dal re, dal vanitoso, dall’ubriacone, dall’uomo d’affari. Tuttavia e il solo che non mi sembri ridicolo. Forse perché si occupa di altro che non di se stesso.
Ebbe un sospiro di rammarico e si disse ancora:
Questo e il solo di cui avrei potuto farmi un amico. Ma il suo pianeta e veramente troppo piccolo, non c’e posto per due…
Quello che il piccolo principe non osava confessare a se stesso, era che di questo pianeta benedetto rimpiangeva soprattutto i suoi millequattrocentoquaranta tramonti nelle ventiquattro ore!



XV

Il sesto pianeta era dieci volte piu grande. Era abitato da un vecchio signore che scriveva degli enormi libri.
"Ecco un esploratore", esclamo quando scorse il piccolo principe.
Il piccolo principe si sedette sul tavolo ansimando un poco. Era in viaggio da tanto tempo.
"Da dove vieni?" gli domando il vecchio signore.
"Che cos’e questo grosso libro?" disse il piccolo principe. "Che cosa fate qui?"
"Sono un geografo", disse il vecchio signore.
"Che cos’e un geografo?"
"E un sapiente che sa dove si trovano i mari, i fiumi, le citta, le montagne e i deserti".
"E molto interessante", disse il piccolo principe, "questo finalmente e un vero mestiere!"
E diede un’occhiata tutto intorno sul pianeta del geografo. Non aveva mai visto fino ad ora un pianeta cosi maestoso.
"E molto bello il vostro pianeta. Ci sono degli oceani?"
"Non lo posso sapere", disse il geografo.
"Ah! (il piccolo principe fu deluso) E delle montagne?"
"Non lo posso sapere", disse il geografo.
"E delle citta e dei fiumi e dei deserti?"
"Neppure lo posso sapere", disse il geografo.
"Ma siete un geografo!"
"Esatto", disse il geografo, "ma non sono un esploratore. Manco completamente di esploratori. Non e il geografo che va a fare il conto delle citta, dei fiumi, elle montagne, dei mari, degli oceani e dei deserti. Il geografo e troppo importante per andare in giro. Non lascia mai il suo ufficio, ma riceve gli esploratori, li interroga e prende degli appunti sui loro ricordi. E se i ricordi di uno di loro gli sembrano interessanti, il geografo fa fare un’inchiesta sulla moralita dell’esploratore".
"Perché?"
"Perché se l’esploratore mentisse porterebbe una catastrofe nei libri di geografia. Ed anche un esploratore che bevesse troppo".
"Perché?" domando il principe.
"Perché gi ubriachi vedono doppio e allora il geografo annoterebbe due montagne la dove ce n’e una sola".
"Io conosco qualcuno", disse il piccolo principe, "che sarebbe un cattivo esploratore".
"E possibile. Dunque, quando la moralita dell’esploratore sembra buona, si fa un’inchiesta sulla sua scoperta".
"Si va a vedere?"
"No, e troppo complicato. Ma si esige che l’esploratore fornisca le prove. Per esempio, se si tratta di una grossa montagna, si esige che riporti delle grosse pietre".
All’improvviso il geografo si commosse.
"Ma tu, tu vieni da lontano! Tu sei un esploratore! Mi devi descrivere il tuo pianeta!"
E il geografo, avendo aperto il suo registro, tempero la sua matita. I resoconti degli esploratori si annotano da prima a matita, e si aspetta per annotarli a penna che l’esploratore abbia fornito delle prove.
"Allora?"
"Oh! Da me", disse il piccolo principe, "non e molto interessante, e talmente piccolo. Ho tre vulcani, due in attivita e no spento. Ma non si sa ma".
"Non si sa mai" disse il geografo.
"Ho anche un fiore".
"noi non annotiamo fiori", disse il geografo.
"Perché? Sono la cosa piu bella".
"Perché i fiori sono effimeri".
"Che cosa vuol dire ‘effimero’?"
"Le geografie", disse il geografo, "sono i libri piu preziosi fra tutti i libri. Non passano mai di moda. E molto raro che una montagna cambi di posto. E molto raro che un oceano si prosciughi. Noi descriviamo delle cose eterne".
"Ma i vulcani spenti si possono risvegliare", interruppe il piccolo principe. "Che cosa vuol dire ‘effimero’?"
"Che i vulcani siano spenti o in azione, e lo stesso per noi", disse il geografo. "Quello che conta per noi e il monte, lui non cambia".
"Ma che cosa vuol dire ‘effimero’?" ripeté il piccolo principe che in vita sua non aveva mai rinunciato a una domanda una volta che l’aveva fatta.
"Vuol dire ‘che e minacciato di scomparire in un tempo breve’".
"Il mio fiore destinato a scomparire presto?"
"Certamente".
Il mio fiore e effimero, si disse il piccolo principe, e non ha che quattro spine per difendersi dal mondo! E io l’ho lasciato solo!
E per la prima volta si senti pungere dal rammarico. Ma si fece coraggio:
"Che cosa mi consigliate di andare a visitare?"
"Il pianeta Terra", gli rispose il geografo. "Ha una buona reputazione…"
E il piccolo principe se ne ando pensando al suo fiore.




XVI

Il settimo pianeta fu dunque la Terra.

La Terra non e un pineta qualsiasi! Ci i contano cento e undici re (non dimenticando, certo, i re negri), settemila geografi, novecentomila uomini d’affari, sette milioni e mezzo di ubriaconi, trecentododici milioni di vanitosi, cioe due miliardi circa di adulti.

Per darvi un’idea delle dimensioni della Terra, vi diro che prima dell’invenzione dell’elettricita bisognava mantenere, sull’insieme dei sei continenti, una vera armata di quattrocentosessantaduemila e cinquecentoundici lampionai per accendere i lampioni. Visto un po’ da lontano faceva uno splendido effetto. I movimenti di questa armata erano regolati come quelli di un balletto d’opera. Prima c’era il turno di quelli che accendevano i lampioni della Nuova Zelanda e dell’Australia. Dopo di che, questi, a vendo accesi i loro lampioni, se ne andavano a dormire. Allora entravano in scena quelli della Cina e della Siberia. Poi anch’essi se la battevano fra le quinte. Allora veniva il turno dei lampionai della Russia e delle Indie. Poi di quelli dell’Africa e dell’Europa. Poi di quelli dell’America del Sud e infine di quelli dell’America del Nord. E mai che si sbagliassero nell’ordine dell’entrata in scena. Era grandioso.

Soli, il lampionaio dell’unico lampione del Polo Nord e il confratello dell’unico lampione del Polo Sud, menavano vite oziose e noncuranti: lavoravano due volte all’anno.


XVII

Capita a volte, volendo fare dello spirito, di mentire un po’. Non sono stato molto onesto parlandovi degli uomini che accendono i lampioni. Rischio di dare a quelli che non lo conoscono una falsa idea del nostro pianeta. Gli uomini occupano molto poco posto sulla Terra. Se i due miliardi di abitanti che popolano la Terra stessero in piedi e un po’ serrati, come per un comizio, troverebbero posto facilmente in una piaza di ventimila metri di lunghezza per ventimila metri di larghezza. Si potrebbe ammucchiare l’umanita su un qualsiasi isolotto del Pacifico.
Naturalmente i grandi non vi crederebbero. Si immaginano di occupare molto posto. Si vedono importanti come dei baobab. Consigliategli allora di fare dei calcoli, adorano le cifre e gli piacero molto. Ma non perdete il vostro tempo con questo pensiero, e inutile, visto che avete fiducia in me.
Il piccolo principe, arrivato sulla Terra, fu molto sorpreso di non vedere nessuno. Aveva gia paura di essersi sbagliato di pianeta, quando un anello del colore della luna si mosse nella sabbia.
"Buona notte", disse il piccolo principe a caso.
"Buona notte", disse il serpente.
Su quale pianeta sono sceso?" domando il piccolo principe.
"Sulla Terra, in Africa", rispose il serpente.
"Ah!… Ma non c’e nessuno sulla Terra?"
"Qui e il deserto. Non c’e nessuno nei deserti. La Terra e grande", disse il serpente.
Il piccolo principe sedette su una pietra e alzo gli occhi verso il cielo:
"Mi domando", disse, "se le stelle sono illuminate perché ognuno possa un giorno trovare la sua. Guarda il mio pianeta, e proprio sopra di noi… Ma come e lontano!"
"E bello", disse il serpente, "ma che cosa sei venuto a fare qui?"
"Ho avuto delle difficolta con un fiore", disse il piccolo principe.
"Ah!" fece il serpente.
E rimasero in silenzio.
"Dove sono gli uomini?" riprese dopo un po’ il piccolo principe. "Si e un po’ soli nel deserto…"
"Si e soli anche con gli uomini", disse il serpente.
Il piccolo principe lo guardo a lungo.
"Sei un buffo animale", gli disse alla fine, "sottile come un dito!…"
"Ma sono piu potente di un dito di un re", disse il serpente.
Il piccolo principe sorrise:
"Non mi sembri molto potente…non hai neppure delle zampe… e non puoi neppure camminare…"
"Posso trasportarti piu lontano che un bastimento", disse il serpente.
Si arrotolo attorno alla caviglia del piccolo principe come un braccialetto d’oro:
"Colui che tocco, lo restituisco alla terra da dove e venuto. Ma tu sei puro e vieni da una stella…"
il piccolo principe non rispose.
"Mi fai pena, tu cosi debole, su questa Terra di granito. Potro aiutarti un giorno se rimpiangerai troppo il tuo pianeta. Posso…"
"Oh! Ho capito benissimo", disse il piccolo principe, "ma perché parli sempre per enigmi?"
"Li risolvo tutti", disse il serpente.
E rimasero in silenzio.





XVIII

Il piccolo principe traverso il deserto e non incontro che un fiore. Un fiore a tre petali, un piccolo fiore da niente…
"Buon giorno", disse il piccolo principe.
"Buon giorno", disse il fiore.
"Dove sono gli uomini?" domando gentilmente il piccolo principe.
Un giorno il fiore aveva visto passare una carovana:
"Gli uomini? Ne esistono, credo, sei o sette. Li ho visti molti anni fa. Ma non si sa mai dove trovarli. Il vento li spinge qua e la. Non hanno radici, e questo li imbarazza molto".
"Addio", disse il piccolo principe.
"Addio", disse il fiore.



XIX

Il piccolo principe fece l'ascensione di un'alta montagna. Le sole montagne che avesse mai visto, erano i tre vulcani che gli arrivavano alle ginocchia. E adoperava il vulcano spento come uno sgabello. "Da una motagno alta come questa", si disse perchio, "vedro di un colpo tutto il pianeta, e tutti gli uomini…" Ma non vide altro che guglie di roccia bene affilate.
"Buon giorno", disse a caso.
"Buon giorno… buon giorno& buon giorno& " rispose l'eco.
"Chi siete?" disse il piccolo principe."Chi siete?… chi siete?.. chi siete?… " rispose l'eco.
"Siate miei amici, io sono solo", disse.
"Io sono solo… io sono solo… io sono solo…" rispose l'eco.
"Che buffo pianeta", penso allora, "e tutto escco, pieno di unte e tutto salto. E gli uomini mancano di immaginazione. Ripetono cio che loro si dice… Da me avevo un fiore e parlava sempre per primo… "
XX

Ma capito che il piccolo principe avendo camminato a lungo attraverso le sabbie, le rocce e le nevi, scoperse alla fine una strada. E tutte le strade portavano verso gli uomini.
"Buon giorno", disse.
Era un giardino fiorito di rose.
"Buon giorno", dissero le rose.

Il piccolo principe le guardo.
Assomigliavano tutte al suo fiore.
"Chi siete?" domando loro stupefatto il piccolo principe.
"Siamo delle rose", dissero le rose.
"Ah!" fece il piccolo principe.
E si senti molto infelice. Il suo fiore gli aveva raccontato che era il solo della sua specie in tutto l'universo. Ed ecco che ce n'erano cinquemila, tutte simili, in un solo giardino.
"Sarebbe molto contrariato", si disse, "se vedesse questo… Farebbe del gran tossire e fingerebbe di morire per sfuggire al ridicolo. Ed io dovrei far mostra di curarlo, perché se no, per umiliarmi, si lascerebbe veramente morire…"E si disse ancora: "Mi credevo ricco di un fiore unico al mondo, e non possiedo che una qualsiasi rosa. Lei e i miei tre vulcani che mi arrivano alle ginocchia, e di cui l'uno, forse, spento per sempre, non fanno di me un principe molto importante…"
E, seduto nell'erba, piangeva.


XXI

In quel momento apparve la volpe.
"Buon giorno", disse la volpe.
"Buon giorno", rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
"Sono qui", disse la voce, "sotto al melo…"
"Chi sei?" domando il piccolo principe, "sei molto carino…"
"Sono una volpe", disse la volpe.
"Vieni a giocare con me", le propose il piccolo principe, "sono cosi triste…"
"Non posso giocare con te", disse la volpe, "non sono addomesticata".
"Ah! scusa", fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
"Che cosa vuol dire "addomesticare"?"
"Non sei di queste parti, tu", disse la volpe, "che cosa cerchi?"
"Cerco gli uomini", disse il piccolo principe. "Che cosa vuol dire "addomesticare"?"
"Gli uomini", disse la volpe, "hanno dei fucili e cacciano. E molto noioso! Allevano anche delle galline. E il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?"
"No", disse il piccolo principe. "Cerco amici. Che cosa vuole dire "addomesticare"?"
"E una cosa da molto dimenticata. Vuol dire "creare dei legami"…"
"Creare dei legami?"
"Certo", disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi.
Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io saro per te unica al mondo".
"Comincio a capire", disse il piccolo principe. "C’e un fiore… credo che mi abbia addomesticato…"
"Comincio a capire", disse il piccolo principe. "C’e un fiore… credo che mi abbia addomesticato…"
"E possibile", disse la volpe. "Capita di tutto sulla Terra…"
"Oh! Non e sulla Terra", disse il piccolo principe.
La volpe sembro perplessa:
"Su un altro pianeta?"
"Si".
"Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?"
"No".
"Questo mi interessa! E delle galline?"
"No".
"Non c’e niente di perfetto", sospiro la volpe.
Ma la volpe ritorno alla sua idea:
"La mia vita e monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio percio. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sara come illuminata. Conoscero un rumore di passi che sara diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi fara uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiu in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me e inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo e triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sara meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che e dorato, mi fara pensare a te. E amero il rumore del vento nel grano…"
La volpe tacque e guardo a lungo il piccolo principe:
"Per favore… addomesticami", disse.
"Volentieri", rispose il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, pero. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose".
"Non si conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe. "Gli uomini non hanno piu tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose gia fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno piu amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!"
"Che bisogna fare?" domando il piccolo principe.
"Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe. "In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, cosi, nell’erba. Io ti guardero con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ piu vicino…"
Il piccolo principe ritorno l’indomani.
"Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe. "Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincero ad essere felice. Col passare dell’ora aumentera la mia felicita. Quando saranno le quattro incomincero ad agitarmi e ad inquietarmi; scopriro il prezzo della felicita! Ma se tu vieni non si sa quando, io non sapro mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti".
"Che cos’e un rito?" disse il piccolo principe .
"Anche questa e una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe. "E quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore. C’e un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedi ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedi e un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza".
Cosi il piccolo principe addomestico la volpe. E quando l’ora della partenza fu vicina:
"Ah!" disse la volpe, "… piangero".
"La colpa e tua", disse il piccolo principe, "io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…"
"E vero", disse la volpe.
"Ma piangerai!" disse il piccolo principe.
"E certo", disse la volpe.
"Ma allora che ci guadagni?"
"Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano".
Poi aggiunse:
"Va’ a rivedere le rose. Capirai che la tua rosa e unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalero un segreto".
Il piccolo principe se ne ando a rivedere le rose.
"Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente", disse. "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto un mio amico e ora e per me unica al mondo".
Le rose erano a disagio.
"Voi siete belle, ma siete vuote", disse ancora. "Non si puo morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi assomigli, ma lei, lei sola, e piu importante di tutte voi, perché e lei che ho innaffiata. Perché e lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perché e lei che ho riparata col paravento. Perché su di lei ho ucciso i bruchi (salvo i due o tre perle farfalle). Perché e lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché e la mia rosa".
E ritorno dalla volpe.
"Addio", disse.
"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. E molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale e invisibile agli occhi".
"L’essenziale e invisibile agli occhi", ripeté il piccolo principe , per ricordarselo.
"E il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa cosi importante".
"E il tempo che ho perduto perla mia rosa…" sussurro il piccolo principe per ricordarselo.
"Gli uomini hanno dimenticato questa verita. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…"
"Io sono responsabile della mia rosa…" ripeté il piccolo principe per ricordarselo.





XXII

"Buon giorno" disse il piccolo principe.
" Buon giorno" disse il controllore.
"Che cos fai qui?" domando i piccolo principe.
"Smisto i viaggiatori a mazzi di mille", disse il controllore. "Spedisco i treni che li trasportano, a volte a destra, a volte a sinistra".
E un rapido illuminato, rombando come il tuono, fece tremare la cabina del controllore.
"Hanno tutti fretta", dises il piccolo principe. "Che cosa cercano?"
"Lo stesso macchinista lo ignora", disse il controllore.
Un secondo rapido illuminato sfreccio nel senso opposto.
"Non sono gli stessi", disse il cotnrollore. "E uno scambio".
"Non erano contenti la dove stavano?"
"Non si e mai contenti dove si sta", disse il controllore.
E rombo il tuono di un terzo rapido illuminato.
"Inseguono i primi viaggiatori?" domando il piccolo principe.
"Non inseguono nulla", disse il controllore. "Dormono la dentro, o sbadigliano tutt’al piu. Solamente i bambini schiacciano il naso contro i vetri."
"Solo i bambini sanno quello ceh cercano", disse il piccolo principe. "Perdono tempo per una bambla di pezza, e lei diventa cosi importante che, se gli viene tolta, piangono…"
"Beati loro", disse il controllore.


XXIII

"Buon giorno" disse il piccolo principe.
" Buon giorno" disse il mercante.
Era un mercante di pillole perfezionate che calmavano la sete.
Se ne inghiottiva una la settimana e non si sentiva piu il bisogno di bere.
"Perché vendi questa roba? " disse il piccolo principe."E' una grossa economia di tempo" disse il mercante.
"Gli esperti hanno fatto dei calcoli. Si risparmiano cinquantatré minuti alla settimana".
"E che cosa se ne fa di questi cinquantatré minuti?"
"Se ne fa quel che si vuole.. ."
"Io", disse il piccolo principe, "se avessi cinquantatré minuti da spendere, camminerei adagio adagio verso una fontana…"


XXIV

Eravamo all'ottavo giorno della mia panne nel deserto, e avevo ascoltato la storia del mercante bevendo l'ultima goccia della mia provvista d'acqua:
"Ah!" dissi al piccolo principe, "sono molto graziosi i tuoi ricordi, ma io non ho ancora riparato il mio aeroplano, nonho piu niente da bere, e sarei felice anch'io se potessi camminare adagio adagio verso una fontana!"
"Il mio amico la volpe mi disse… "
"Caro il mio ometto, non si tratta piu della volpe!"
"Perché?"
"Perché moriremo di sete… "
Non capi il mio ragionamento e mi rispose:
"Fa bene l'aver avuto un amico, anche se poi si muore. Io, io sono molto contento d'aver avuto un amico volpe… "
Non misura il pericolo, mi dissi. Non ha mai né fame, né sete. Gli basta un po' di sole…Ma mi guardo e ripose al mio pensiero:
"Anch'io ho sete… cerchiamo un pozzo…"
Ebbi un gesto di stanchezza: e assurdo cercare un pozzo, a caso, nell'immensita del deserto. Tuttavia ci mettemmo in cammino.
Dopo aver camminato per ore in silenzio, venne la notte, e le stelle cminciarono ad accendersi. Le vedevo come in sogno, attraverso la febbre che mi era venuta per la sete. Le parole del piccolo principe danzavano nella mia memoria.
"Hai sete anche tu?" gli domandai.
Ma non rispose alla mia domanda. Mi disse semplicemente:
"Un po' d'acqua puo far bene anche al cuore…"
Non compresi la sua risposta, ma stetti zitto… sapevo bene che non bisognava interrogarlo.
Era stanco. Si sedette. Mi sedetti accanto a lui. E dopo un silenzio disse ancora:
"Le stelle sono belle per n fiore che non si vede…"
Risposi: "Gia", e guardai, senza parlare, le pieghe della sabbia sotto la luna.
"Il deserto e bello", soggiunse.
Ed era vero. Mi e sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualche cosa risplende in silenzio…
"Cio che abbellisce il deserto", disse il piccolo principe, "e che nasconde un pozzo in qualche luogo… "
Fui sorpreso di capire d'un tratto quella misteriosa irradiazione della sabbia. Quando ero piccolo abitavo in una casa antica, e la leggenda raccontava che c'era un tesoro nascosto. Naturalmente nessuno ha mai potuto scoprilo, né forse l'ha mai cercato. Eppure incantava tutta la casa. La mia casa nascondeva un segreto nel fondo del suo cuore…
"Si", dissi al piccolo principe, "che si tratti di una casa, delle stelle o del deserto, quelloc he fa la loro bellezza e invisibile".
"Sono contento", disse il piccolo principe, "che tu sia d'accordo con la mia volpe".
Incominciava ad addormentarsi, io lo presi tra le braccia e mi rimisi in cammino. Ero commosso. Mi sembrava di portare un fragile tesoro. Mi sembrava pure che non ci fosse niente di piu fragile sulla Terra. Guardavo, alla luce della luna, quella fronte pallida, quegli occhi chiusi, quelle ciocche di capelli che tremavano al vento, e mi dicevo: "Questo che io vedo non e che la scorza. Il piu importante e invisibile…"
E siccome le sue labbra semiaperte abbozzavano un mezzo sorriso mi dissi ancora: "Ecco cio che mi commuove di piu in questo piccolo principe addormentato: e la sua fedelta a un fiore, e l'immagine di una rosa che risplende in lui come la fiamma di uan lampada, anche quando dorme…" E lo pensavo ancora piu fragile. Bisogna ban proteggere e lampade: un colpo di vento le puo spegnere…E cosi, camminando, scoprii il pozzo al levar del sole.




XXV

"Gli uomini", disse il piccolo principe, "si imbucano nei rapidi, ma non sanno piu che cosa cercano. Allora si agitano, e girano intorno a se stessi"
E soggiunse:
"Non vale la pena"
Il pozzo che avevamo raggiunto non assomigliava ai pozzi sahariani.
I pozzi sahariani sono dei semplici buchi scavati nella sabbia. Questo assomigliava a un pozzo di villaggio. Ma non c'era alcun villaggio intorno, e mi sembrava di sognare.
"E' strano", dissi al piccolo principe, "e tutto pronto: la carrucola, il secchio, la corda" Rise, tocco la corda, fece funzionare la carrucola. E la carrucola gemette come geme una vecchia banderuola dopo che il vento ha dormito a lungo.
"Senti", disse il piccolo principe, "noi svegliamo questo pozzo e lui canta"
Non volevo che facesse uno sforzo.
"Lasciami fare", gli dissi, "e troppo pesante per te".Lentamente issai il secchio fino all'orlo del pozzo. Lo misi in equilibrio. Nelle mie orecchie perdurava il canto della carrucola e nell'acqua che tremava ancora, vedevo tremare il sole.
"Ho sete di questa acqua", disse il piccolo principe, "dammi da bere"
E capii quello che aveva cercato! Sollevai il secchio fino alle sue labbra. Bevette con gli occhi chiusi. Era dolce come una festa. Quest'acqua era ben altra cosa che un alimento. Era nata dalla marcia sotto le stelle, dal canto della carrucola, dallo sforzo delle mie braccia. Faceva bene al cuore, come un dono. Quando ero piccolo, le luci dell'albero di Natale, la musica della Messa di mezzanotte, la dolcezza dei sorrisi, facevano risplendere i doni di Natale che ricevevo.
"Da te, gli uomini", disse il piccolo principe, "coltivano cinquemila rose nello stesso giardino e non trovano quello che cercano"
"Non lo trovano", risposi.
"E tuttavia quello che cercano potrebbe essere trovato in una sola rosa o in un po' d'acqua"
"Certo", risposi. E il piccolo principe soggiunse:
"Ma gli occhi sono ciechi. Bisogna cercare col cuore".
Avevo bevuto. Respiravo bene. La sabbia, al levar del sole, era color del miele. Ero felice anche di questo color di miele. Perché mi sentivo invece angustiato? "Devi mantenere la tua promessa", mi disse dolcemente il piccolo principe, ce di nuovo si era seduto vicino a me.
"Quale promessa?"
"Sai… una museruola per la mia pecora… sono responsabile di quel fiore!"
Tirai fuori dalla tasca i miei schizzi. Il piccolo principe li vide e disse ridendo:
"I tuoi baobab assomigliano un po' a dei cavoli… "
"Oh!"
Disegnai dunque una museruola. E avevo il cuore stretto consegnandogliela:
"Hai dei progetti che ignoro"
Non mi rispose. Mi disse:
"Sai, la mia caduta sulla Terra sara domani l'anniversario"
Poi, dopo un silenzio, disse ancora:
"Ero caduto qui vicino"
Ed arrossi.
Di nuovo, senza capire il perché, provai uno strano dispiacere. Tuttavia una domanda mi venne alle labbra:
"Allora, non e per caso, che il mattino in cui ti ho conosciuto, tu passeggiavi tutto solo a mille miglia da qualsiasi regione abitata! Ritornavi verso il punto della tua caduta?"
Il piccolo principe arrossi ancora.
E aggiunsi, esitando:
"Per l'anniversario, forse?"
Il piccolo principe arrossi di nuovo. Non rispondeva mai alle domande, ma quando si arrossisce vuol dire "si", non e vero? "Ah!" gli dissi, "ho paura"
Ma mi rispose:
"Ora devi lavorare. Devi riandare dal tuo motore. Ti aspetto qui. Ritorna domani sera"
Ma non ero rassicurato. Mi ricordavo della volpe. Si arrischia di piangere un poco se ci si e lasciati addomesticare…





XXVI

C'era a fianco del pozzo un vecchio muro di pietra in rovina. Quando ritornai dal mio lavoro l'indomani sera, vidi da lontano il mio piccolo principe che era seduto la sopra, le gambe penzoloni. Lo udii che parlava.
"Non te ne ricordi piu?" diceva, "non e proprio qui!"
Un'altra voce senza dubbio gli rispondevo, perché egli replico:
"Si! si! E proprio questo il giorno, ma non e qui il luogo"
Continuai il mio cammino verso il muro. Non vedevo, né udivo ancora l'altra persona. Tuttavia il piccolo principe replico di nuovo:
"Sicuro.Non hai che da attendermi la. Ci saro questa notte".
Allora abbassai gli occhi ai piedi del muro e feci un salto! C'era la drizzato verso il piccolo principe, uno di quei serpenti gialli che ti uccidono in trenta secondi. Arrivai davanti al muro giusto in tempo per ricevere fra le braccia il mio ometto, pallido come la neve. "Che cos'e questa storia! Adesso parli con i serpenti!"
Mi disse:
"Sono contento che tu abbia trovato quello che mancava al tuo motore. Puoi ritornare a casa tua".
Soggiunse "Anch'io, oggi, ritorno a casa".
Poi, melanconicamente:
"E' molto piu lontano e molto piu difficile"
Mi sentii gelare per il sentimento dell'irreparabile. E capii che non potevo sopportare l'idea di non sentire piu quel riso. Era per me come una fontana nel deserto.
"Ometto voglio ancora sentirti ridere"
Ma mi disse:
"Sara un anno questa notte. La mia stella sara proprio sopra al luogo dove sono caduto l'anno scorso"
"Ometto, non e vero che e un brutto sogno quello del serpente, dell'appuntamento e della stella?"
Ma non mi rispose. Disse:
"Quello che e importante non lo si vede"
"Certo"
"E' come per l'acqua. Quella che tu mi hai dato da bere era come una musica, c'era la carrucola e c'era la corda… ti ricordi… era buona".
"Certo"
"Guarderai le stelle, la notte. E' troppo piccolo da me perché ti possa mostrare dove si trova la mia stella. E' meglio cosi. La mia stella sara per te una delle stelle. Quando ti guarderai il cielo, la notte, visto che io abitero in una di esse, visto che io ridero in una di esse, allora sara per te come se tutte le stelle ridessero. Tu avrai, tu solo, delle stelle che sanno ridere!"
E rise ancora.
"Sara come se ti avessi dato, invece delle stelle, mucchi di sonagli che sanno ridere"
E rise ancora. Poi ridivenne serio.
"Questa notte sai, non venire".
"Non ti lascero".
"Sembrera che io mi senta male… sembrera un po' che io muoia. E cosi. Non venire a vedere, non vale la pena…"
"Non ti lascero".
Ma era preoccupato.
"Ti dico questo… Anche il serpente. Non bisogna che ti morda& I serpenti sono cattivi. Ti puo mordere solo per il piacere di…"
"Non ti lascero".
Ma qualcosa lo rassicuro:
"E vero che non hanno piu veleno per il secondo morso… "
Quella notte non lo vide mettersi in cammino. Si era dileguato senza far rumore. Quando riusci a raggiungerlo camminava deciso, con un passo rapido. Mi disse solamente:
"Ah! Sei qui"
E mi prese per mano. Ma ancora si tormentava:
"Hai avuto torto. Avrai dispiacere. Sembrero morto e non sara vero"
Io stavo zitto.
"Capisci? E' troppo lontano. Non posso portare appresso il mio corpo. E' troppo pesante".
Io stavo zitto.
"Sara bello, sai. Anch'io guardero le stelle. Tutte le stelle saranno dei pozzi con una carrucola arrugginita. Tutte le stelle mi verseranno da bere"
Io stavo zitto.
"E' la. Lasciami fare un passo da solo".
Fece un passo. Io non potevo muovermi.
Non ci fu che un guizzo giallo vicino alla sua caviglia.
Rimase immobile per un istante. Non grido. Cadde dolcemente come cade un albero. Non fece neppure rumore sulla sabbia.





XXVII

Ed ora, certo, sono gia passati sei anni. Non ho ancora mai raccontata questa storia. Gli amici che mi hanno rivisto erano molto contenti di rivedermi vivo. Ero triste, ma dicevo: "E la stanchezza… " Ora mi sono un po' consolato. Cioe… non del tutto. Ma so che e ritornato nel suo pianeta, perché al levar del giorno, non ho ritrovato il suo corpo. Non era un corpo molto pesante… e mi piace la noette ascoltare le stelle. Sono come cinquecento milioni di sonagli…
Ma ecco che accade una cosa straordinaria.
Alla museruola disegnata per il piccolo principe, ho dimenticato di aggiungere la correggia di cuoio! Non avra mai potuto mettere la museruola ala pecora. Allora mi domando:
"Che cosa sara successo sul suo pianeta? Forse la pecora ha mangiato il fiore…"
Tal altra mi dico: "Certamente no! Il piccolo principe mette il suo fiore tutte le notti sotto la sua campana di vetro, e sorveglia bene la sua pecora…" Allora sono felice. E tutte le stelle ridono dolcemente.
Tal altra acora mi dico: "Una volta o l'altra di distrae e questo basta! Ha dimenticato una sera la campana di vetro, oppure la pecora e uscita senza far rumore durante la notte…" Allora i sonagli si cambiano tutti in lacrime!
E tutto un grande mistero!
Per voi che pure volete bene al piccolo principe, come per me, tutto cambia nell'universo se in qualche luogo, non si sa dove, una pecora che non conosciamo ha, si o no, mangiato una rosa.
Guardate il cielo e domandatevi: la pecora ha mangiato o non ha mangiato il fiore? E vedrete che utto cambia…Ma i grandi non capiranno mai che questo abbia tanta importanza.
Questo e per me il piu bello e il piu triste paesaggio del mondo. É lo stesso paesaggio dell'immagine precedente, ma l'ho disegnato un'altra volta perché voi lo vediate bene. É qui che il piccolo principe e apparso sulla Terra e poi e sparito.
Guardate attentamente questo paesaggio per essere sicuri di riconoscerlo se un giorno farete un viaggio in Africa, nel deserto. E se vi capita di passare di la, non vi affrettate, fermatevi un momento sotto le stelle! E se allora un bambino vi viene incontro, se ride, se ha i capelli d'oro, se non risponde quando lo si interroga, voi indovinerete certo chi e. Ebbene, siate gentili! Non lasciatemi cosi triste: scrivetemi subito che e ritornato…